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Vincenzo Gemito, dalla scultura al disegno: la mostra a Napoli

Vincenzo Gemito, Testa di pastore
Vincenzo Gemito, Testa di pastore

Dopo l’enorme successo riscosso a Parigi, la mostra Le sculpteur de l’âme napolitaine, che ha restituito alla fama internazionale il grande artista Vincenzo Gemito, arriva nelle sale del Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli con un nuovo titolo, Gemito, dalla scultura al disegno, curata da Jean-Loup Champion, Maria Tamajo Contarini e Carmine Romano, fino al 15 novembre 2020. Un progetto realizzato dalla proficua collaborazione di Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte e di Christophe Leribault, direttore del Petit Palais di Parigi.

Il percorso espositivo è suddiviso in nove sezioni, in cui le opere sono esposte cronologicamente e associate a quelle di artisti suoi contemporanei. L’allestimento delle sale XX, XXI e XXII ricostruisce metaforicamente l’atmosfera di un “atelier”, quello dello scultore Gemito che dal suo studio sulla collina del Vomero contemplava il meraviglioso paesaggio napoletano. Elementi in ferro e legno di betulla, tavoli come supporti di lavoro, contro-pareti di betulla (come una boiserie contemporanea), fungono da supporto espositivo. Due sezioni in particolare sono dedicate ai due grandi amori dell’artista: la francese Mathilde Duffaud e la napoletana Anna Cutolo, detta ‘Nannina’, da cui avrà una figlia: Giuseppina.

Nato a Napoli nel 1852, abbandonato ed esposto alla ruota dell’Annunziata, vive la sua infanzia per le strade della città. Circondato dall’affetto dei suoi genitori adottivi, l’artista si forma fuori dalle accademie, a contatto sia con la classicità dei reperti archeologici di Ercolano e Pompei esposti al Museo Nazionale di Napoli, sia con la produzione presepiale delle botteghe di San Gregorio Armeno.

Gemito raggiunge la fama mondiale a 25 anni con l’opera il Pescatore, presentato alla Mostra Universale di Parigi del 1878. Nella scultura romantica, soprattutto francese, il tema del pescatore è interpretato come sinonimo di leggiadria e sogno, in netta contrapposizione con la visione crudamente realistica dello scultore partenopeo. Tornato a Napoli, aprì la sua prima fonderia, epicentro di una intensa produzione artistica seguita da profonde crisi di instabilità psichica.

Vincenzo Gemito. Foto di Giovanna Garraffa

Ad accogliere i visitatori è la scultura Il giocatore, realizzata all’età di sedici anni. Soggetto privilegiato delle sue opere sono gli scugnizzi dal destino precario, caratterizzati dagli intensi ritratti modellati nell’argilla. Presentato alla Promotrice nel 1870 con il titolo Il vizio, fu acquistata dal re Vittorio Emanuele per il Museo di Capodimonte. La statua è una denuncia della condizione dell’infanzia napoletana all’indomani dell’Unità di Italia. Lo scugnizzo tenta la fortuna al gioco o cerca di leggere nelle carte una risposta per il suo incerto destino.

Ai ritratti, invece, sono dedicati una serie di busti di vari artisti: dal compositore Giuseppe Verdi al pittore Vincenzo Pasquale, da Domenico Morelli a Mariano Fortuny, e da Francesco Paolo Michetti al figlio del prefetto Guido Marvasi. Per la madre adottiva, Giuseppina Baratta e il suo secondo marito, Francesco Jadicicco, detto ‘Masto Ciccio’, che lo aiuta in fonderia e posa per vari ritratti, l’artista ritrae, di quest’ultimo, l’intenso volto popolare, soffermandosi sulle rughe e sulla barba incolta, vestito con casacca di foggia orientale.

A Mathilde Duffaud, il suo primo grande amore, sono dedicati una serie di disegni. Di nove anni più grande di Gemito, se ne innamora, andando a vivere con lui nel suo studio al Moiariello, quartiere popolare di Napoli. Nel 1877 l’artista va a Parigi e lei lo raggiunge nonostante le condizioni fisiche precarie. Rientrati a Napoli, la salute della donna peggiora progressivamente, fino ad arrivare alla morte nell’aprile del 1881. Sconvolto dalla scomparsa dell’amata, lo scultore si trasferisce per qualche mese a Capri, dove modella piccoli ritratti isolani. Nel 1885, il re Umberto I gli commissiona la colossale statua di Carlo V, presente in mostra, per la facciata del Palazzo Reale e, l’anno seguente, un centrotavola in argento. Proprio in questo periodo, la sua salute mentale comincia a vacillare.

Vincenzo Gemito. Foto di Giovanna Garraffa

La sezione del viaggio a Parigi nel 1877 è incentrata sui rapporti di Gemito con l’ambiente culturale francese, mediante artisti italiani. Con l’amico Antonio Mancini incontra il pittore Giuseppe De Nittis, l’impressionista Edgar Degas e, il più potente pittore dell’epoca, Ernest Meissonier. Passano gli anni, lo scultore è ormai affermato e stimato a corte, a tal punto da ricevere dalla Casa Reale l’incarico per la grandiosa composizione del Trionfo da tavola destinato alla Reggia di Capodimonte. L’opera, da realizzare in argento, avrebbe dovuto illustrare in forma simbolica le ricchezze del paesaggio italiano e la magnanimità di Casa Savoia. Al centro del bozzetto, la raffigurazione di fiumi, mari e laghi, che illustrano il ciclo dell’acqua sulla terra, doveva sorreggere una fruttiera colma di fiori e frutta, inquadrata da candelabri e prezioso vasellame. I riferimenti iconografici rimandano alle ricerche sull’antico, care a Gemito, poi ripresi nei progetti di oreficeria, come le raffigurazioni della Medusa e della Coppaflora, presenti in mostra.

Dopo l’esperienza parigina, tra il 1886 e il 1909, l’artista è afflitto da gravi turbe psichiche. Continua a lavorare realizzando un importante nucleo di disegni caratterizzati da un tratto rapido e sapiente, illuminati da tocchi di luce che contengono una grande forza plastica. Bozzetti e studi, ma anche disegni autonomi come i bellissimi ritratti Bertolini, provenienti da Philadelphia, lo conducono verso soluzioni innovative, di apertura verso il Novecento.

Ad un’altra figura femminile è incentrata una sezione del percorso espositivo: Anna Cutolo. Nel 1882 l’artista si innamora di questa modella, riconoscibile nel superbo dipinto di Donna con ventaglio di Domenico Morelli. Dal matrimonio dei due nel 1885, nasce la figlia Peppinella, destinata a divenire valido supporto all’attività paterna. La bellezza procace della sua Nannina (Anna), così diversa da quella delicata della fragile Mathilde, diventa la protagonista delle sue opere. Ancora una volta, però, il destino gli sottrae l’amore e, nel 1906, Anna muore tra le sofferenze della malattia documentata da struggenti, quasi impietosi, disegni di Gemito, che ripiomba nello sconforto.

Vincenzo Gemito. Foto di Giovanna Garraffa

Sul finire del primo decennio del 1900, l’artista, quasi sessantenne, riprende la sua attività e si mostra in sintonia con il fresco gusto europeo dell’Art Nouveau, come testimoniano le opere in argento in mostra. Tra difficoltà e riconoscimenti lavora fino alla morte, sopraggiunta nel 1929, dedicandosi ad una affascinante rilettura dell’antico, quasi a ricongiungersi con i suoi inizi, quando adolescente, visitando il Museo Nazionale di Napoli, ritrovava istintivamente, nelle sculture antiche, la sua natura ellenica partenopea.

Nell’ultima parte dell’esposizione, vi è una interessante spiegazione della tecnica della fusione a cera persa praticata da Gemito, che prevedeva diverse fasi di lavorazione. In un primo approccio lo scultore realizza un modello in argilla o gesso (anima) delle stesse dimensioni della statua definitiva e lo ricopre di cera. Al modello sono applicati alcuni canalini in cera, uno principale e altri secondari disposti a lisca di pesce, per garantire il drenaggio del metallo fuso, fori per la fuoriuscita della cera liquefatta e condotti di sfiato per i vapori caldi. Il tutto è poi ricoperto da un massiccio strato di gesso refrattario (forma) da cui sporgono l’imbuto della bocca di colaggio e gli sfiati. Al modello sono applicati alcuni chiodi per fissare l’anima interna alla forma, per evitare spostamenti e variazioni di spessore nella sottile intercapedine creata dal deflusso della cera.

La forma è cotta in forno a 400°-500° gradi per far sciogliere la cera che esce dagli sfiati. Il bronzo (legame di rame, stagno e piombo) è fuso a 1100° gradi e versato con un crogiolo attraverso la bocca di colaggio, per riempire l’intercapedine lasciata vuota dalla cera. Una volta raffreddata, si smantella la forma (scoccaggio) e si passa alla paziente pulitura dai canali e dai residui di fusione (nettatura). Con raspe e ceselli, lo scultore procede alla rifinitura dei particolari e alla patinatura, procedimento chimico che anticipa la naturale ossidazione del metallo.

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