Come “fare” arte contemporanea seriamente e consapevolmente, sostenendo gli artisti, coinvolgendo la comunità e valorizzando il territorio senza mire vacue e autoreferenziali? Parola a Karussell, associazione culturale nata a Fermo, basse Marche, composta dal trittico Matilde Galletti, Lidia Martorana, Marica Riccioni, che di quel “fare” serio e consapevole ne ha fatto missione e visione. Riuscendoci alla perfezione. Lavorando in questi anni concretamente, sul campo, nella propria terra. “Con” questa, e “per” questa. Quella provincia italiana (in questo caso il fermano, ma valida per ogni realtà locale e spesso anche per le metropoli) tanto storicamente ricca quanto endemicamente “provinciale”, limitata, per quel che concerne dimensioni e orizzonti “contemporanei”. Un atto di resistenza e di amore lontano dai riflettori facili elettrici delle città. La lodevole volontà tangibile di portare nella piccola realtà marchigiana respiro e ricchezza di un operare artistico trasversale, che agisca e dialoghi fecondamente con il luogo eletto (in questo caso grazie alle origini e al bagaglio di conoscenza ed esperienza delle tre fondatrici). Una luce nel magma spesso inutile e onanistico del contemporaneo, composta da progetti (pochi) selezionati e realizzati certosinamente, un “lavoro lento, serio e paziente”, per “armonizzare luoghi, contenuti, pubblico” e arrivare a tutti, “il grande desiderio di farci capire e di far capire l’arte” (visite esplicative e pubblicazioni incluse). Tanto studio, qualità, ricerca, racconto. Poco o nulle fighettaggini varie. Il linguaggio dell’arte contemporanea che ci piace, quello che accende luci qua e là anche nei palazzi più remoti del Paese arricchendoci e parlando a tutti.
Karussell. Chi siete, come vi definite, da dove deriva il nome? Quando e soprattutto qual è stata la scintilla, l’urgenza, che ha dato vita a questa realtà, come siete organizzate? Quale la missione, la visione, l’obiettivo principe?
L’associazione Karussell è composta da tre persone: Matilde Galletti, Lidia Martorana e Marica Riccioni. Matilde e Lidia si conoscono da tantissimi anni, mentre Marica ci è venuta incontro tre anni fa e anche con lei si è stretto un bel legame. Da poco è arrivata ad aiutarci Valentina Santamaria, direttamente dall’École du Louvre, che già è stata tirata dentro a pieno regime. Tutte abbiamo alle spalle un percorso legato all’arte e alla comunicazione, più qualche interesse che divaga. Il nome è venuto dalla necessità di cambiarlo. Prima il progetto si chiamava Playroom, dovendolo sostituire e dovendo anche dare un nome alla nostra associazione, abbiamo deciso di averne uno solo. Karussell è stata una delle poche proposte e ci è piaciuto perché è il carosello, la giostra, qualcosa di ludico, vitalistico e vagabondo. La scelta della dicitura in lingua tedesca è per accompagnare a tale leggerezza semantica, un rigore fonetico che vorrebbe essere in linea con il nostro atteggiamento nel lavoro.
È stata la difficoltà di relazionarsi con istituzioni pubbliche che ci ha fatto risolvere di partire in forma autonoma: più di una volta ci era stato chiesto di formulare delle proposte per il territorio, ma poi non si riusciva mai a concretizzare nulla, solo trovare uno spazio senza dover chiedere mille permessi e firme era (e resta, per quanto riguarda spazi pubblici o della Curia) un’impresa. Da qui, e dalla voglia di veder realizzato almeno uno molti progetti proposti, l’idea di procedere autonomamente e sfruttare il ricco patrimonio privato di cui Fermo è piena. Il nostro primo obiettivo è promuovere e sostenere il lavoro di giovani artisti emergenti.
Curare una mostra per noi vuol dire sostenere economicamente il lavoro di un artista, provvedere alla produzione delle opere (che restano tutte di sua proprietà, senza chiedere alcunché in cambio) e alla sua movimentazione e ospitalità, favorire lo scambio con il contesto che lo accoglie. Accanto a ciò e parimenti, ci interessa promuovere il nostro territorio di appartenenza, le Marche del sud, il ricco patrimonio di cui è dotato e la storia di quest’ultimo, altrettanto importante. Inoltre, il nostro profondo amore per l’arte ci spinge a volerla condividere con quante più persone possibili e dunque è anche per questo che abbiamo scelto la formula palazzi privati (mai visti, così riusciamo a incuriosire anche un pubblico più restio a frequentare l’arte contemporanea) e artisti emergenti (giovani, per cui la percezione esterna è che sia più facile approcciarli colloquialmente).
Bellissimo il vostro ultimo progetto (la mostra di Giovanni Oberti) realizzato e concepito ad hoc per un palazzo storico di Fermo, Palazzo Brancadoro. Cosa significa per voi (e in generale) “fare” arte contemporanea? Quando davvero un progetto di arte contemporanea può essere un valore aggiunto per gli spazi, il luogo, il territorio, le persone?
Dal nostro punto di vista “fare” arte contemporanea vuol dire, come accennato sopra, mettere gli artisti nella condizione di poter lavorare con agio. Ascoltarli, accontentarli, rispettarli umanamente e professionalmente. Fare arte contemporanea vuol dire anche riuscire a far conoscere progetti e ricerche artistiche quanto più possibile al di fuori dei circuiti soliti del sistema dell’arte, altrimenti finiamo per essere solo autoreferenziali. Un progetto funziona quando si cerca di armonizzare luoghi, contenuti, pubblico. Cercando di fare ciò e per questo, abbiamo una progettazione molto lunga, fatta di lavoro lento, serio e paziente. Di solito invitiamo gli artisti a fare più sopralluoghi per scegliere lo spazio che ospiterà la loro mostra (quando possibile, perché in questo momento abbiamo grosse difficoltà ad avere luoghi disponibili poiché molti edifici sono ancora inagibili dopo il terremoto del 2016) e chiediamo loro di intervenire in maniera poco invasiva: le opere devono risultare perfettamente integrate, come se facessero parte del luogo. Tendenzialmente la mostra diventa un percorso in cui le opere creano una narrazione attraverso la quale per lo spettatore è più semplice capire cosa ha davanti. Per noi questo è molto importante perché operiamo in un territorio pressoché digiuno di arte contemporanea e dunque è un modo fondamentale per non far sentire chi viene a visitare le nostre mostre un pesce fuor d’acqua.
Oltretutto, fin dall’inizio, è stato nostro desiderio cercare di attrarre un pubblico quanto più vasto possibile, dunque la chiarezza e la leggibilità sono fondamentali, per questo abbiamo apparati cartacei esplicativi molto chiari e le visite guidate sono sempre fatte da Matilde, che è la curatrice delle mostre. Seguendo ogni cosa con estrema attenzione, sapendo di dover lavorare al meglio e cercando di evitare trascuratezze di vario genere, sappiamo che stiamo arricchendo il territorio di qualcosa di unico, per le Marche del sud, che può diventare catalizzatore per convergere attenzioni esterne sui nostri luoghi, non solo belli paesaggisticamente e gastronomicamente!
Ricerca, curatela, studio, lavoro, dettagli, collaborazioni… Come operate, agite, solitamente? Come scegliete gli artisti e i luoghi con cui e sui quali lavorare?
La nostra organizzazione parte molto prima delle mostre ovvero l’anno precedente, quando siamo sicure di avere i fondi necessari per poter lavorare. Così, quando necessario, possiamo in qualsiasi momento mettere a disposizione dell’artista il contributo economico che è a lui destinato. Allo stesso tempo cominciamo a valutare gli artisti in relazione alle loro ricerche, agli spazi che abbiamo e al tipo di mostre che vorremmo fare quell’anno. Può anche capitare che un artista ci parli di un progetto che ha in mente da molto tempo ma non sa come produrlo e magari noi abbiamo a disposizione le maestranze adatte.
Quindi, una volta deciso cosa fare, cerchiamo di capire come poter arricchire questi progetti. Una collaborazione che funziona molto bene da due anni è quella con delegazione FAI di Fermo, con la quale organizziamo dei pomeriggi in cui arte contemporanea e patrimonio storico si intrecciano. Questa cosa ci ha permesso di raggiungere un pubblico poco avvezzo al contemporaneo e di conquistarlo, in qualche modo. Ma ci ha anche consentito di arricchirci del contributo delle ricerche storiche e della conoscenza del patrimonio territoriale del FAI.
La vostra base, centro pulsante, è la cittadina di Fermo. Come ci si relaziona con una realtà locale come Fermo, quali i feedback, le impressioni avute in questi anni di lavoro, quali i punti di forza intessuti col tempo, quale la risposta della comunità…?
Siamo nelle Marche del sud, un territorio bellissimo ma ostile. Non è semplice lavorare perché, come puoi immaginare, è sede di molteplici ‘feudi’ che difendono il proprio piccolo consenso invece di fare rete, specialmente le vecchie generazioni. Ma per fortuna ci sono tantissime realtà, piccole o grandi, con le quali siamo riuscite a entrare in sintonia e con le quali ci spalleggiamo. All’inizio il nostro rigore, l’essere molto ferme nelle decisioni che riguardavano un tipo di approccio non localistico ma attento e rigoroso nell’offrire proposte di qualità, ci ha fatto percepire come distanti, altezzose, mentre invece, conoscendoci, venendo alle nostre mostre, chiunque ha potuto sentire la nostra disponibilità, capire che il nostro rigore è qualità che offriamo al territorio, che siamo persone alla mano che adorano l’arte.
Questa passione è tangibile e chi viene a conoscerci la sente subito, dunque poi abbiamo avuto delle bellissime risposte, da un pubblico di tutte le età: da bambini (sì, vengono anche delle famiglie ‘normali’, di non addetti ai lavori), ragazzi universitari, ultraottantenni! Il punto di forza è davvero il grande desiderio di farci capire e di far capire l’arte. Chiunque venga è accolto e sempre trattato con molta attenzione e ascoltato affinché possa chiarire qualsiasi dubbio. Non siamo certo un trampolino di lancio per giovani artisti emergenti, ma di sicuro vorremmo definirci un trampolino di lancio per l’arte contemporanea nel nostro territorio.
Di sicuro abbiamo stretto delle bellissime amicizie con i proprietari delle case che ci hanno ospitato.
Mettere in piedi una mostra, e un progetto a lungo termine. Tessere rete con le eccellenze, coinvolgere le realtà locali, vedi l’ultimo caso Oberti: dal collezionista (tela di Licini) alla delegazione del FAI, dal circolo di Ave al far rivivere e conoscere i gioielli, palazzi, storici della città. Come si costruisce una mostra come quella di Oberti? Dall’approccio con l’artista, le basi, alla continua “curatela”.. visite guidate, racconto, pubblicazione.. Come si lega con le esperienze di esposizioni precedenti e future per tenere una coerenza curatoriale?
Diciamo che cerchiamo di fare di necessità virtù. Della collaborazione col FAI ti ho parlato prima, ma per esempio, per la mostra di Giovanni Oberti abbiamo collaborato con un artigiano e designer bravissimo, Marco Ripa, che ha prodotto due sculture. E ora, per la mostra di dicembre con Andrea Romano, stiamo collaborando con una ditta che lavora il plexiglass e non solo. Abbiamo creato una rete di supporto di professionisti, artigiani e altre realtà virtuose della zona che ci aiutano: sono sponsor tecnici che hanno un ruolo fondamentale nella riuscita dei nostri progetti. Sempre per la mostra di Andrea, produrremo anche un libro d’artista, in questo caso Demetrio Mancini, un grafico molto bravo, ci offrirà la sua progettazione.
La mostra poi, in qualche maniera, si costruisce da sola: gli artisti ‘sentono’ i luoghi che gli proponiamo e riescono a costruire sempre qualcosa di speciale! Noi gli stiamo accanto, li supportiamo e cerchiamo di agevolarli quanto più possibile. Da qui, per esempio, il contatto con il collezionista di Licini. A Giovanni sarebbe piaciuto molto poter completare la mostra con il Ritratto di Ave di Osvaldo Licini, una tela del 1920 che raffigura la nonna della proprietaria del palazzo dove avremmo fatto la mostra e che è l’unico documento tangibile di una dolce storia d’amore. Anche la nostra ospite aveva da sempre desiderato poter vedere dentro casa quel quadro. E così ci siamo adoperate per ottenerlo. Non potendoci permettere trasporti e assicurazione per poterlo avere per tutta la durata della mostra, il collezionista si è reso disponibile a portalo ogni volta che ne abbiamo avuto bisogno. Veramente un gesto bellissimo e un aiuto incredibile!
E così continuiamo a lavorare per tutte le mostre. Quando ci è stato chiesto di progettare qualcosa ma ci sono stati imposti dei paletti che non ci permettevano di mantenere questo standard, abbiamo rifiutato.
Futuro prossimo (mostre in arrivo) e sviluppo nuovi progetti, idee, scommesse sulle quali investire anche sul lungo tempo, nei prossimi mesi, anni (siano a Fermo che in altri posti, località..)
Come dicevo, a dicembre avremo Andrea Romano in un palazzo del Settecento che contiene nelle sue sale una quadreria incredibile, con tele di Guido Reni, Sebastiano del Piombo, Giulio Romano, collezionate dal padre dell’attuale proprietaria; una collettiva a fine marzo e Lula Broglio a luglio. In cantiere un progetto per una residenza d’artista al Porto di Porto San Giorgio e Fermo.
E poi l’idea di poter studiare qualcosa di dedicato per un’azienda con la quale abbiamo già collaborato e che ha risposto con grande entusiasmo all’ingresso dell’arte contemporanea nei suoi spazi (Affiorare di Ornaghi&Prestinari nel 2018). Da una bella amicizia nata con la proprietaria dell’ultimo palazzo che ci ha ospitato è venuto fuori un nuovo piccolo progetto: da alcuni anni, in quel luogo, è attivo il Circolo di Ave, un’associazione che si occupa di promuovere talenti emergenti e maestri affermati attraverso la proposta di concerti di musica jazz e da camera. Vista la piacevole collaborazione per la mostra di Giovanni Oberti, ci è stato chiesto di aprire ogni futuro concerto con un piccolo cameo di arte contemporanea ovvero portando un lavoro di un artista e raccontandone la ricerca.
Poi, certo, il sogno nel cassetto è poter fare una mostra a Casa Leopardi con il FAI…