Tra gli scrittori che hanno raccontato Venezia c’è anche Marcel Proust. L’autore francese ha parlato più volte della città, che ha visitato nel 1890, descrivendola a più riprese ne A la Recherche du temps perdu.
Venezia – la città fondata sull’impossibile come la definì Jacopo Sansovino – è, per la sua stessa eccezionalità, l’unica città a conservare intatto il fascino da sempre esercitato su tutti coloro che vi sono transitati, malgrado qualche dettaglio sia nel frattempo inevitabilmente mutato. Oggi che, causa pandemia, la città lagunare è stata abbandonata dai turisti, (7-8 milioni all’anno) e le acque dei canali sono ridiventate trasparenti, è forse possibile ipotizzare una Venezia del futuro, la città possibile immaginata dal filosofo Massimo Cacciari (veneziano di San Tomà): una città abitabile, disinquinata e fruibile nella sua interezza.
In attesa di questa possibile Venezia del futuro, rituffiamoci con una vena di nostalgia nella Venezia di oggi, vivibile nel suo splendore soprattutto quando le luci del tramonto divampano rosse dietro la Chiesa della Salute. Allora è tempo di fare un giro in gondola, contemplare le facciate dei palazzi, le ogive ed i marmi che sembrano sorgere dalla Laguna per uno strano miracolo. Il Palazzo dei Dogi appare la più raffinata moschea d’Occidente, al cui interno i Tintoretto e i Veronese sono racchiusi come in uno scrigno prezioso e tutta la città è così lontana e diversa, così orientale nella sua posa da odalisca. Lentamente si insinua e ci penetra un senso di rivelazione che diventa emozione e sperdimento.
Diciamolo subito! A scrivere di Venezia si rischia sempre il luogo comune, l’insufficienza della parola, l’artificio della retorica. Marcel Proust, il celebre autore dei 7 libri che compongono la sua opera maggiore A la Recherche du temps perdu, quasi a prendere le distanze da tanta struggente bellezza, preferì subito stabilire un confronto con l’umile Cambrai della sua infanzia, descrivendo le sensazioni simili e opposte legate a questi due diversissimi luoghi. Ambedue paesi dell’anima, certo, ma nutriti di luoghi veri, reali, conosciuti. Per non perdersi definitivamente fra i “palazzi di porfido e diaspro”, lo scrittore francese elesse a sua guida l’amatissimo Ruskin e, preso quasi per mano dal grande Maestro del gotico, riuscì a sopportare “i segreti di quella città d’oriente”.
Qui, impregnato delle sue splendide intuizioni, sperimentò l’esperienza della bellezza, che ebbe su di lui un effetto di totale stordimento, quasi vivesse un magico sogno. Il soggiorno di Proust a Venezia, molto desiderato e a lungo rimandato, oltre che nell’Epistolario, viene descritto soprattutto nel sesto libro della Recherche, La Fuggitiva. Ma già nel primo volume della sua monumentale opera, Dalla parte di Swann, un viaggio a Venezia è uno dei sogni del narratore bambino. A ostacolarne la realizzazione intervennero la malattia e la passione per Albertine, così che questo diventa possibile solo quando Albertine è morta e la passione dimenticata. Nella realtà dei fatti Proust avrebbe dovuto raggiungere Venezia nell’estate del 1899, dopo aver passato le acque a Evian, ma non avendo trovato nessuno che lo accompagnasse, il viaggio si realizzò soltanto durante la primavera dell’anno dopo.
Marie Nordlinger – che con suo cugino Reynaldo Hann lo raggiunse nella città lagunare – scrive così: “Fu in un radioso mattino di maggio che mia zia, Reynaldo e io vedemmo Marcel e sua madre arrivare a Venezia”. E già nel pomeriggio, seduti a un tavolino del Caffè Quadri, lui e Marie lavorarono su una traduzione della Bibbia di Amiens, opera fondamentale per la comprensione del gotico. Proust e la madre alloggiavano all’Hotel Danieli, caratterizzato da grandi finestre a ogiva, aperte sulla visione di San Giorgio Maggiore, sulla Giudecca e, in lontananza, sulle basse e sabbiose dune del Lido; lo stesso albergo dove, in una camera d’angolo, la numero dieci, George Sand e Alfred De Musset vissero una torrida storia d’amore.
Di giorno si spostavano in Piazza San Marco, solo 200 metri più in là. Il breve percorso lo facevano in gondola “così che la Chiesa non mi si presentava solo come un monumento, ma come la meta di un percorso sull’acqua marina e primaverile, che per me faceva con San Marco un’unità indivisibile e viva”. La facciata della Basilica, appena arrivato stanco dal viaggio e suggestionato da un’eccessiva immaginazione, gli apparve subito un po’ meno simile all’intarsio di perle e rubini a cui Ruskin l’aveva paragonata, ma quando scese nelle calli, dopo un sonnellino pomeridiano, “immaginazione e realtà si erano ormai fuse”. Lo scrittore si fa sorprendere, avvincere dalle emozioni: “Si entrava, mia madre ed io, nel Battistero, mettendo il piede sui mosaici di marmi e paste vitree del pavimento, avendo di fronte a noi le lunghe arcate cui il tempo ha flesso le superfici svasate e rosee conferendo alla chiesa, dove ha rispettato la freschezza di quei colori, l’apparenza di esser composta di una materia dolce e malleabile come cera d’alveoli giganteschi e dove gli artisti l’hanno traforata e lumeggiata d’oro, d’essere la preziosa rilegatura, in qualche cuoio di Cordova del colossale Evangelico di Venezia”.
Al crepuscolo Proust amava andare in gondola con i suoi amici e Reinaldo cantava versi di Musset musicati da Gounod. I Palazzi sul Canal Grande gli apparivano allora come “una scogliera di marmo… abitazioni che facevano pensare a luoghi naturali, ma di una natura che avesse creato le proprie opere con un’immaginazione umana”. Ma è soprattutto la Venezia notturna, esplorata perdendosi nell’intrico delle calli, ad affascinarlo di più. Scrive ancora nella Fuggitiva:
La sera uscivo da solo nella città incantata perdendomi fra sentieri sconosciuti come un personaggio delle Mille e una Notte. Era rarissimo che non mi avvenisse di scoprire per caso, durante la mia passeggiata, qualche piazza sconosciuta e spaziosa, di cui nessuna guida, nessun viaggiatore mi aveva parlato. Ero penetrato in un intrico di strade vuote, di calli. D’improvviso, in fondo a una di quelle stradette, pareva che nella materia cristallizzata si fosse prodotta una distensione. Un vasto e sontuoso Campo che in quella rete di stradicciole certo non avrei saputo immaginare di tanta importanza e al quale non avrei saputo dare spazio, si estendeva dinanzi a me, circondato da bei palazzi, pallido al chiaro di luna.
Ritorna invano il giorno dopo a ricercare la bella piazza notturna, l’intrico delle calli lo disorienta completamente e alla fine pensa di averla solo sognata.
Venezia: quanti artisti, scrittori, poeti si sono provati a decifrare il suo mistero. E quante Venezie! É il sogno da mille e una notte dell’universo proustiano, è l’ubriacatura sdolcinata di Truman Capote, “Venezia è come mangiare tutta in una volta una scatola di cioccolatini al liquore”, è la città svenduta, l’osceno bazar descritto da Regis Derby in un suo violento libello. Venezia splendida e ridente nel sole e nei colori, Venezia malinconica e decadente nella nebbia, Venezia fragile ed eterna. Venezia è… non si finirebbe mai di descriverla.