Elegia Americana, il nuovo film di Ron Howard con Glenn Close e Amy Adams. Uno spaccato degli Stati Uniti dell’epoca Trump, la nostra
“Ritengo che noi hillbillies siamo la gente più maledettamente dura che sia al mondo, ma ci dobbiamo dare una svegliata, dannazione”, così J.D. Vance nel suo memoir “Hillbilly Elegy”, tradotto in Italia come “Elegia Americana” (Garzanti). Ron Howard ha scelto questa storia vera per realizzare il suo ultimo film, uscito il 24 novembre su Netflix.
La particolarità della vicenda si intuisce facilmente soprattutto grazie al personaggio della nonna di Vance, interpretata da Glenn Close, straordinaria (a dire della famiglia di Vance stesso) sia nella trasformazione fisica che per come ha saputo catturare l’essenza del personaggio. Mamaw – così la chiama Vance, come da tradizione hillbilly (cioè dei “montanari”) – si trasferisce da giovane con il marito dal Kentucky all’Ohio, inseguendo il sogno americano rappresentato dalle industrie dell’acciaio e del carbone – all’epoca fiorenti in quell’area, tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi (principalmente Pennsylvania, West Virginia, Ohio e Indiana), oggi soprannominata Rust Belt, come la ruggine, simbolo del declino subito da quella stessa industria. All’ennesimo rientro a casa del consorte in preda ai fumi dell’alcol, la donna decide di cospargerlo di benzina e dargli fuoco (verrà salvato dalle figlie).
È infatti proprio la nonna a essere il cardine del racconto nonché pilastro della famiglia. Sarà lei a portare Vance, abbandonato dal padre quando era piccolo e in balia degli umori della madre (interpretata da Amy Adams, anche lei notevole per come ha saputo incarnare il personaggio materno alle prese con problemi di tossicodipendenza), a vivere con sé, per strapparlo dal tunnel di degrado e indolenza in cui stava per cadere. “Quei tre anni con lei mi hanno salvato”, scrive Vance, oggi 36enne avvocato della Silicon Valley.
Oltre a narrare la storia di una famiglia, dei suo drammi e delle sue stravaganze – Vance in un’intervista motiva il livello di violenza rappresentata nel libro come nel film – eccessivo anche agli occhi di molti americani, ricollegandola al fatto che il Midwest americano, dove è nato e cresciuto, sia popolato in larghissima maggioranza dai discendenti di migranti irlandesi e scozzesi da sempre portatori di un grado di aggressività superiore alla media -, “Elegia Americana” sembra essere il racconto di un’intera generazione.
Quello che emerge in Elegia Americana è il fallimento di quel sogno americano che aveva portato i nonni di Vance a prendere le loro cose e, dai monti Appalachi, a trasferirsi a Middletown, Ohio, entrando così a far parte della classe media bianca e operaia americana, proprio quella gente che nel racconto di Vance emerge come esempio di profonda decadenza, in gran parte dovuta alla crisi dell’industria pesante che un tempo dava lavoro alle famiglie della Rust Belt.
Ron Howard, divenuto celebre in tutto il mondo grazie al ruolo di Richie Cunningham nella sitcom “Happy Days”, e successivamente per aver diretto film come “Apollo 13”, “A Beautiful Mind” (Premio Oscar per il Miglior Film) e “Il Codice da Vinci” (2006), con la sua 29esima opera da regista, torna a riflettere sulla storia del suo Paese, dopo averlo fatto anche in “Frost/Nixon” (2008), basato sull’intervista che l’ormai ex Presidente degli Stati Uniti, travolto dallo scandalo Watergate, aveva rilasciato al conduttore televisivo inglese David Frost.
Se però “Frost/Nixon”, con l’ottima sceneggiatura di Peter Morgan (The Crown), non aveva evitato che il film sembrasse assolvere la figura di Nixon, “ammantandola di cupa grandezza” (“Il Mereghetti”), lasciando incerti su quanto Howard attraverso il film fosse riuscito a raccontare della società americana, con “Elegia Americana” il regista restituisce un ritratto del suo Paese d’origine decisamente più efficace, rispettando quasi completamente la storia di Vance – che ha collaborato come consulente alla realizzazione del film – e riuscendo al tempo stesso a costruire una vicenda umanamente coinvolgente, merito forse anche del fatto che la storia raccontata sia realmente avvenuta.
Peraltro, visti i tempi recenti in cui si svolge la vicenda (il film è una sorta di “palleggio” cronologico tra l’adolescenza di Vance negli anni ’90 e la sua vita da studente di legge all’Università di Yale, dove si laurea nel 2013, spezzando così il destino fallimentare che sembrava attenderlo), “Elegia Americana” racconta molto anche del nostro presente, spiegando in parte quali siano state le ragioni che hanno portato all’elezione di Donald Trump Presidente degli Stati Uniti nel 2016.
Proprio la classe media americana descritta da Vance e filmata da Howard, colpita dalla crisi economica, da politiche di welfare dissennate – come l’assegno di sussistenza corrisposto alle coppie neo-sposate (che porterà molte coppie a unirsi per poi separarsi una volta incassati i soldi: la stessa madre di Vance si sposerà più volte durante la sua adolescenza) – e dalla diffusione incontrollata degli oppioidi, sarà determinante con i propri voti a portare al potere il miliardario newyorchese.
Howard ha dichiarato di essere stato toccato fin da subito dalla storia di Vance, che gli ha ricordato le sue stesse origini: il regista proviene infatti da un’altra realtà di provincia – quella dell’Oklahoma – e anche lui chiamava la nonna Mamaw. Ma la vicenda è in grado di coinvolgere anche chi da quella realtà, così schietta e drammaticamente reale, non proviene affatto. È proprio la disarmante schiettezza dei personaggi, la loro attitudine alla violenza e la totale assenza di futuro, che aleggia su molte delle figure che Vance incontra nella sua adolescenza, a rendere “Elegia Americana” una storia così lucida e viva.