Secondo Tonelli mai come in questi anni l’arte mainstream è stata tanto conformista e rispettosa delle cosiddette minoranze, diventando un mezzo di propaganda
Un nostro articolo pubblicato ieri prendeva spunto dalla lista “Power 100” dei soggetti più influenti nel mondo dell’arte nel 2020, pubblicata dalla rivista ArtReview, per proporre alcune riflessioni sulla deriva “sociologica” della creatività contemporanea.Sul tema è voluto intervenire anche Marco Tonelli, storico e critico d’arte, direttore artistico del museo di Palazzo Collicola a Spoleto. Ecco il suo contributo…
Diciamocelo onestamente, è difficile pensare di vedere nel prossimo futuro pittura così sciatta e poco interessante come quella vista nell’ultima edizione della Biennale di Venezia del 2018 ad opera di artisti come Lubiana Himid, Faith Rinngold, Henri Taylor, Nijdeka Akuny Crosby, Kemang Wa Lehulere, Nicole Eisenman, Jill Mellaed. I temi dei dipinti erano questioni razziali, di gender e di emigrazione ed ovviamente esprimere un giudizio critico su questa vera e propria bad painting, trita e ritrita (intenzionalmente o no poco importa) non significa entrare nel merito dei contenuti e delle questioni affrontate. Come non significa entrare nel merito affermare che le fotografie esposte in quella Biennale (ritratti di donne di colore transgender e omosessuali dell’attivista visiva Zahele Muholi) accompagnavano il percorso della mostra con la stessa cadenza con cui pubblicità e slogan politici scorrono sui manifesti stradali: per convincerci di o venderci un prodotto.
Neanche a farlo apposta il titolo dell’ultima Quadriennale, FUORI, si rifà al nome del collettivo di attivisti in difesa degli omosessuali fondato nel 1971 (pur non essendo la mostra romana una mostra a tema sull’attivismo degli omosessuali), il che dà la linea generale e completa del quadro à la page, proprio mentre si legge che nel piano del Recovery fund 17 miliardi saranno messi a bilancio per parità di genere e 3 per cultura e turismo. Verrebbe da chiedersi se non fosse meglio dichiarare l’arte e la cultura una minoranza (come di fatto sono) per ricevere più attenzioni da parte dello stato e magari venir ritenuti beni essenziali e con pari opportunità di genere.
Mai come in questi anni l’arte mainstream è stata tanto conformista e rispettosa delle cosiddette minoranze, diventando un mezzo di propaganda e di codice alla stregua di quanto fatto in Unione Sovietica sotto gli auspici del realismo socialista, con la differenza che quei dettami erano imposti dall’alto e da un ordine “anche” estetico (contro l’astrazione e l’arte delle avanguardie borghesi), mentre quelli attuali, di dettami, sono taciti e di ordine politico. Sembra che al realismo socialista siano stati sostituiti i concetti di un politically correct che ormai è diventato assai incorrect verso chi non vi si adegua. Anche cancellare un graffito illegale su un muro antico rischia di essere a sua volta un gesto illegale!
La tendenza parrebbe quella di categorizzare desideri, sentimenti e aspirazioni secondo la razza, le inclinazioni sessuali (ci vogliono istruzioni per l’uso per districarsi tra trans, cis, omo, fluid, neutro, queer), l’età, e non piuttosto in rispetto della persona, a prescindere dai generi. Dividendo le nostre identità in sottoinsiemi (per forza sempre minoritari e polverizzati) sarà più facile vendere a ognuno pacchetti, proteste con ashtag e viaggi fatti su misura degli interessati in gioco. Il motto latino del “divide et impera” sembra più attuale che mai.
Inevitabile che tutto ciò entri nell’arte contemporanea, che del presente è il termostato più immediato e disinteressato. Leggete quanto sostiene in White Bret Easton Ellis (scrittore dichiaratamente omosessuale, pur se bianco) contro questa politica censoria e terroristica di inclusione che tralascia ormai ogni criterio estetico in favore di quelli inclusivisti ad oltranza e quindi ideologici. Andrebbe riletto oggi anche La cultura del piagnisteo del critico Robert Hughes scritto nel 1993 per scoprire che perfino un’opera di Sol LeWitt (Muybridge I del 1964) fu censurata nel 1991 da Elizabeth Broun, direttrice dello Smithsonian National Museum of American Art di Washington, perché ritenuta “degradante” e “umiliante” per la sua iconografia: un nudo femminile fotografato, in omaggio alla celebre serie di scatti di Edward Muybridge. Non esiste al mondo artista più impersonale, concettuale, aniconico, rispettoso degli altri e per certi versi universale di LeWitt!
Tutti dovrebbero avere le stesse opportunità di esporre, ma non tutti possono raggiungere l’obiettivo allo stesso modo, per intensità del linguaggio, spessore dell’opera, visione poetica. E poi soprattutto per censo, famiglia e formazione, prima ancora che per sesso e razza. A volte la scelta del gender o della questione dell’identità, della minoranza, del politically correct sembra una scappatoia per evitare il discorso critico e la critica sociale per poter puntare così tutto sul diritto ad essere ammessi a prescindere. Se questa è “storia del gusto, non è però storia dell’arte”, come aveva dichiarato della Pop, a un giornale americano, Giovanni Carandente nel 1963. L’arte del presente testimonia varie sollecitazioni, che però non tutte hanno il diritto di essere esposte nei musei come opere, semmai come un discorso intorno alla società e all’arte.
La storia dell’arte, per quanto si voglia censurare oggi Dante, Shakespeare, il Preraffaellita Waterhouse, la scultura Rinascimentale o, preventivamente, una mostra di Philip Guston, non si cambia retroattivamente come si vorrebbe o come si sta tentando di fare includendovi a forza figure che non vi sono mai entrate: “non ci sono mai state grandi artiste – sebbene ne siano esistite di interessanti e capaci, di non sufficientemente studiate o apprezzate – così come non sono esistiti grandi pianisti jazz lituani o tennisti eschimesi, a prescindere da quanto possiamo desiderare che ce ne siano stati”. Così scriveva nel 1970 la critica di cultural studies e femminista per eccellenza: Linda Nochlin!
A proposito dell’antologica americana di Guston: pare sia stata rimandata al 2024. Forse a quella data avremo risolto tutti i problemi di pari opportunità? Il futuro non sembra però così roseo, al di là delle quote che saranno garantite…