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L’arte è delle minoranze, da sempre

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Still from Arthur Jafa, The White Album, 2018

Una breve e incompleta riflessione su come le minoranze culturali e artistiche, dal Rinascimento ad oggi, hanno modificato espressioni, paradigmi, linguaggi e hanno costruito la Storia dell’Arte.

Partendo da molto lontano si potrebbe prendere in considerazione quel periodo artistico noto come Gotico Internazionale, uno stile pittorico estremamente diffuso (anche fuori dall’Italia) che ingloba un periodo storico che va dal 1370 circa fino alla metà del secolo successivo e annovera tra i suoi più illustri rappresentati Pisanello, Gentile Da Fabriano, Belbello da Pavia. D’improvviso, in un contesto culturale particolare come quello che si creò a Firenze, avvenne cambio di paradigma con la triade Brunelleschi, Donatello, Masaccio. Questa rivoluzione artistica fu il frutto di una serie di cambiamenti culturali in atto già molto tempo prima che possiamo far risalire a Giotto e Petrarca, ma che si dischiusero con effetti sorprendenti solo all’inizio del XV secolo. Quel rinnovato linguaggio non subì vessazioni o né venne ostacolo perché era in linea con il nuovo spirito d’umanesimo presente nella corte di Firenze. Quei capolavori vennero realizzati da una minoranza di artisti ad uso e consumo di una minoranza/élite: molte di quelle opere rinascimentali oggi presenti nei musei erano conservate nelle abitazioni private dei committenti, oppure in luoghi poco o del tutto inaccessibili al pubblico. Si pensi alla Cappella Sistina, terminata nella sua totalità da Michelangelo nel 1541, rimase accessibile solo ad un ristretto gruppo di persone fino alla sua apertura al pubblico. É probabile che l’anno scorso in un mese più persone abbiano visitato la cappella di quelle che hanno avuto accesso dal suo compimento alla prima apertura pubblica (circa tre secoli).

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Erste Internationale Dada-Messe, Berlino, 1920. Installation view

Ma lasciando perdere un periodo storico così lontano e diverso sotto tantissimi punti di vista possiamo prendere spunto dalla avanguardie storiche. A inizio Novecento gli artisti ormai avevano da tempo controllo e libertà totale sulle loro creazioni. Ecco quindi il Cubismo, due gli esponenti principali Picasso e Braque, un quindicina chi ne usò il linguaggio, il Futurismo, una decina gli appartenenti alla prima fase, una ventina quelli che arrivarono dopo, il Dadaismo, composto da meno di dieci individui il gruppo di Zurigo e in totale non più numeroso di trenta artisti. E così via per ogni avanguardia che si affacciò nel panorama artistico di inizio XX secolo. Tutte minoranze di artisti che interagivano tra loro, nel loro ristretto contesto culturale. Molti non vennero subito compresi, il loro agire era contrario al gusto generale, erano in opposizione. E così via fino al postmodernismo quando l’arte comincia a ripiegarsi su se stessa, quando il discorso si sposta dalle invenzioni alle manipolazioni del linguaggio artistico già disponibile, al suo riassemblaggio. Nel frattempo cambia tutto: i musei d’arte diventano sempre più centrali e potenti, le persone cominciano sempre di più a voler conoscere a studiare e confrontarsi con i linguaggi contemporanei. Quello che non è mai cambiato sono gli attori e il contesto. Mentre il mondo diventava un villaggio il discorso artistico è rimasto in mano agli occidentali o a chi ne sapeva utilizzare il linguaggio. Il primo spiraglio d’apertura fu la famigerata mostra Magiciens de la Terre del 1989, nella quale per la prima volta vennero accolti artisti non occidentali con l’obiettivo di eludere categorie etnografiche ereditate dalle esposizioni coloniali.

Magiciens de la Terre – Revisited. Centre Pompidou, 2014. Installation View

Da qualche tempo, per fortuna, le cose sono cambiate. L’accesso all’espressività contemporanea è diventata più democratica e le minoranze etniche, culturali, di genere, oggi hanno disponibilità all’ascolto e gli strumenti espressivi per creare opere nelle quali possono comunicare, testimoniare e raccontare punti di vista totalmente inaccessibili all’entità dell’artista bianco, etero e occidentale. Quest’ultimi rappresentano indubbiamente ancora la maggioranza assoluta del panorama artistico ad ogni livello delle infrastrutture che compongono il sistema dell’arte. Il fatto che solo molto recentemente certe tematiche e certi artisti abbiano avuto modo di proporre punti di vista di minoranza e che questi combacino con questioni urgenti della nostra quotidianità è del tutto conseguenziale. Il movimento Black Live Matter, messo al primo posto della Power100 di ArtReview, arriva in ritardo: nell’ultima edizione della Biennale di Venezia il Leone d’Oro è stato assegnato all’opera di Arthur Jafa, The White Album. Un lavoro che parla di razzismo, suprematismo bianco di una potenza da togliere il fiato. É piuttosto ovvio affermare che nessun artista bianco avrebbe mai potuto anche solo concepire un’opera del genere. Questo vale per molte lavori che artisti appartenenti a minoranze hanno realizzato e stanno realizzando. “Ma cos’è una minoranza? Minoranza è divenire, dinamismo, è il movimento che anima i cambiamenti di qualsiasi evoluzione. Mentre il potere esiste per perpetuare se stesso, la minoranza lavora nel sottosuolo attraverso vibrazioni dapprima impercettibili e poi sempre più potenti, fino a far crollare dalle fondamenta la poderosa fortezza che si trova in superficie. Deleuze e Guattari affermano che non vi è divenire maggioritario, maggioranza non è mai un divenire. Non vi è divenire se non minoritario”. 

Bárbara Wagner & Benjamin de Burca, Swinguerra, 2019. Still

Per questo la pluralità che oggi pervade le istituzioni artistiche da così fastidio, è vista come una minaccia, un pericolo. E quindi si mettono in moto strani discorsi che etichettano, senza mai entrare nel merito, determinata arte come politically correct o perbenista. Ci sono artisti appartenenti a minoranze la cui arte non è valida? Certamente. C’è chi utilizza determinati artisti per fare marketing? Può essere. Ma certamente non va confuso processi di pink washing, black washing o rainbow washing messi in atto da grandi aziende (si pensi ai prodotti Coca-Cola con i colori arcobaleno commercializzati solo in America e in EU e non nei paesi arabi) con la legittima pluralità che un’istituzione come un museo deve garantire. Perchè in quei luoghi dove le minoranze possono esprimersi, autodeterminarsi, creare, parlare, c’è più libertà per tutti.

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