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Il genio di Luca Giordano. Dalla natura alla pittura: la mostra a Napoli

Luca Giordano (1634-1705) Sansone e il leone 1694-1696, Olio su tela 95 x 142 cm, Madrid, Museo del Prado Luca Giordano (1634-1705) Sansone e il leone 1694-1696, Olio su tela 95 x 142 cm, Madrid, Museo del Prado
Luca Giordano (1634-1705) Sansone e il leone 1694-1696, Olio su tela 95 x 142 cm, Madrid, Museo del Prado
Luca Giordano (1634-1705) Sansone e il leone 1694-1696, Olio su tela 95 x 142 cm, Madrid, Museo del Prado

Da Parigi a Napoli. Dopo la proficua esposizione al Petit Palais, amministrato dal direttore Christophe Leribault, l’interessante mostra Luca Giordano. Dalla natura alla pittura, arriva nelle sale del Museo e Real Bosco di Capodimonte, curata da Stefano Causa e Patrizia Piscitello, fino al 10 gennaio 2021.

E’ una narrazione diversa del pittore seicentesco che si evince dalle dichiarazioni del direttore del museo partenopeo, Sylvain Bellenger, in cui emerge una nuova chiave di lettura delle opere di Giordano: “In questa seconda tappa, a Napoli, l’artista ci viene raccontato come non lo è mai stato prima, diversamente da Parigi. Sebbene Giordano abbia contato molto per i francesi, non lo si poteva presentare allo stesso modo ai napoletani, che sono abituati a incontrarlo frequentemente, a volte senza riconoscerlo, nel loro museo o nelle loro chiese. I curatori hanno saputo ricollocare la particolarità del grande pittore e anche pensarlo nel contesto delle chiese napoletane, poiché in fondo è a Napoli e soprattutto nello spazio delle architetture barocche, più ancora che nei musei, che Giordano si mostra in tutta la sua dimensione e dà prova del mestiere e della visione che porterà fino in Spagna, con i rapimenti trionfanti e gioiosi che rendono il monastero dell’Escorial un luogo un po’ meno austero”.

Nei primi anni di attività artistica, Giordano si muove nel solco del pittore Jusepe de Ribera, grazie alla quale assimila le esperienze di Tiziano, Lanfranco, Pietro da Cortona e Pieter Paul Rubens. Fondamentali furono i viaggi giovanili a Roma, Venezia e Firenze. Le committenze per le chiese e per l’aristocrazia napoletana e spagnola gli aprirono la strada per un lungo soggiorno a Madrid, nell’ultimo decennio del ‘600. Resta in Spagna per circa dieci anni, producendo una sterminata quantità di tele e di affreschi, tra residenze reali e chiese. Nel 1694, il Sovrano Carlo II lo consacra capo dei pittori della corte. Tornato a Napoli, trascorre gli ultimi anni di vita lavorando per la Certosa di San Martino e per le chiese dei Girolamini e di Donnaregina. Muore nel 1705. La sua produttiva attività di pittore, caratterizzata da migliaia di disegni, dipinti e affreschi, gli fanno guadagnare l’appellativo di “Luca fa presto”.

Tornando al percorso espositivo, Giordano è documentato nelle fasi salienti del suo lavoro, messo in dialogo con alcuni suoi maestri, con i compagni di strada e con i contemporanei che provarono a eguagliarne lo stile o, più saggiamente, se ne distanziarono: Jusepe de Ribera, Lanfranco, Pietro da Cortona, Mattia Preti, Micco Spadaro, Andrea e Lorenzo Vaccaro, Pacecco De Rosa, Giuseppe Recco, Giuseppe De Maria e altri.

Luca Giordano (1634-1705) San Michele Arcangelo sconfigli angeli ribelli Siglato: LG 1657 Olio su tela 375 x 280 cm Napoli, parrocchia della SS. Ascensione a Chiaia
Luca Giordano (1634-1705), San Michele Arcangelo sconfigge gli angeli ribelli, Olio su tela 375 x 280 cm Napoli, parrocchia della SS. Ascensione a Chiaia

Ciò che risalta percorrendo la prima sala della mostra è l’allestimento. Si inizia con una interpretazione dei salotti seicenteschi napoletani a cui seguono delle “stanze delle meraviglie”: wunderkammer con quadreria, carta da parati e boiserie di color rosso scuro. Ogni sala ha una carta con lo stesso disegno, ma di tonalità diverse. Infine, è riprodotta la Cappelletta Girolamini, con colorazioni di tonalità “bruciata” riprese dalla natura.

Ad accogliere i visitatori sono una serie di disegni di carattere scenografico, realizzati velocemente, che attingono agli artisti del passato: Albrecht Durer, Lucas van Leyden, Rubens, Rembrandt, Ribera, Paolo Veronese, Tiziano e Raffaello.

Nei dipinti della seconda sala si nota il peso e l’influenza di Ribera sul pittore napoletano, riletto in uno spartito cromaticamente più chiaro e mosso. Il Martirio di San Pietro, è essenziale per comprendere il rapporto con il caravaggismo filtrato dal suo maestro, non diversamente da quanto accade per l’opera di Mattia Preti. Ci sono almeno cinque versioni di questo soggetto, il che amplia gli interrogativi su Giordano replicante di sé stesso.

Nella terza sala si assiste alla mitizzazione dell’artista. L’irresistibile ascesa sulla scena napoletana è testimoniata da una sequenza spettacolare di dipinti d’altare di particolare coinvolgimento, databili a partire dalla seconda metà degli anni ’50, in cui le citazioni dai maestri, da Lanfranco a Ribera, si fondono mirabilmente con i prelievi dall’Antico. Alcune di queste opere sono visibili nella loro collocazione originaria; altre, per ragioni diverse, sono state da tempo musealizzate. Il San Michele Arcangelo sconfigge gli angeli ribelli in mostra, proviene dalla Parrocchia della Ss. Ascensione a Chiaia di Napoli. In questa tela, l’artista compie la definitiva rottura con la stagione del naturalismo napoletano, una tinta di blu e oro travolge il vorticoso dinamismo delle figure. Egli pone la sua sigla a lettere maiuscole, non a margine del dipinto, ma al centro.

Il confronto con Jusepe de Ribera caratterizza le opere della quarta sala. Di tutti i maestri putativi di Giordano, da Tiziano a Rubens, da Lanfranco a Pietro da Cortona, è l’artista spagnolo quello con cui non smise mai di confrontarsi. Si tratta di un contatto, talvolta simbiotico, come nel caso del notturnale e quasi stregato San Sebastiano del 1660, dove Giordano, rispetto alla stessa opera del suo maestro, San Sebastiano del 1651, la composizione resta simile, ma la luminosità del dipinto di Ribera affonda in una cromia più scura, illuminata soltanto dal bicolore blu e ocra.

Luca Giordano (1634-1705) Apollo e Marsia 1660 Olio su tela 205 x 259 cm Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
Luca Giordano (1634-1705), Apollo e Marsia, 1660, Olio su tela 205 x 259 cm, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

Alla peste, che dilagò a Napoli nel 1656, dove si moriva, si scampava o si pregava rifugiandosi nell’aria salubre della collina di San Martino, il trionfo della morte fu occasione di spunti e pretesti per gli artisti. Mattia Preti, Micco Spadaro e lo stesso Giordano realizzarono per l’occasione degli ex voto, visibili nella quinta sala. Spadaro è il cronista della peste, esemplificata con il dipinto Largo Mercatello durante la peste del 1656, dove lo slargo del Mercato é il centro città, e diventa protagonista con le mura impregnate degli umori e dei miasmi che salgono dai cadaveri degli appestati. Giordano riprende lo stesso tema e realizza un San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste del 1656, in cui la scena degli appestati riversi nel registro inferiore è debitrice degli affreschi che Mattia Preti, pochi anni prima, dipinse sulle porte della città.

Nella sesta sala, cambia lo stile del pittore partenopeo, i suoi dipinti virano verso il Barocco. Non a Napoli, ma a Firenze, l’artista ha modo di qualificarsi come il massimo esperto di questa corrente dell’Europa di fine secolo. Gli affreschi del salone e della biblioteca di Palazzo Medici Riccardi (1682), costituiscono una lezione sul decorativismo nel tardo barocco a quindici anni dalla morte di Pietro da Cortona. Il dialogo a distanza con quest’ultimo, connota, senza mai più cadere di tensione, l’iter creativo di Giordano fino dagli esordi. L’Estasi di Sant’Alessio, proveniente dal Complesso Museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco (1661), è legata al Sant’Alessio Morente dei Girolamini, precedente di circa trent’anni, in cui sono visibili rimandi a Pietro da Cortona. Giordano ripropone il dettaglio naturalistico del pagliericcio, la porpora delle vesti del Santo e soprattutto l’apertura ocra e azzurro nel registro superiore, dove compare il gruppo di angeli.

La sua forza e il raggio di diffusione del suo genio non sono relativi solo alla pittura: la selezione di vetri e opere di ceramica rendono l’eredità del pittore un episodio articolato e centrifugo. Nella sala che i tedeschi definiscono una Wunderkammer (una camera delle meraviglie), e i francesi, in accezione non troppo diversa, un cabinet d’amateur, sono esposte i manufatti artigianali che si potevano annoverare nelle stanze di un palazzo patrizio: ad esempio le ceramiche di Carlo Antonio Grue, su cui sono raffigurate le storie di Caino e Abele, il Sacrificio di Isacco e il Baccanale. Anticaglie che non sono solo la certificazione di un raggiunto status economico e culturale, ma forniscono l’illusione che gli oggetti possano prolungare i piaceri terreni.

Luca Giordano (1634-1705) Assunzione della Vergine 1698 ca., Olio su tela 61 x 82,2 cm, Madrid, Museo del Prado
Luca Giordano (1634-1705) Assunzione della Vergine 1698 ca., Olio su tela 61 x 82,2 cm, Madrid, Museo del Prado

La penultima sala è incentrata, invece, sui lavori realizzati dall’artista durante la sua permanenza spagnola. Si trasferisce alla corte di Madrid nell’ultimo decennio del secolo e vi rimane per una decade, lavorando con un’alacrità senza confronti e producendo una sterminata quantità di tele, anche di grandi dimensioni e, soprattutto tantissimi affreschi. E proprio dal Palazzo del Buen Retiro della capitale spagnola, proviene il dipinto Perseo e la Medusa (1669-1702), tratto dal V libro delle Metamorfosi di Ovidio, dove realizzò altre tre tele di argomento mitologico, tutte di uguali dimensioni e con l’uso del sottinsù, funzionale per le grandi altezze dei saloni reali.

Tornato a Napoli, i suoi ultimi lavori vedono la scena locale ripiegata in senso neoconservatore e orientata in una direzione che sarebbe poco definire accademica.

Il Settecento napoletano non è il secolo di Giordano, ma degli artisti Francesco Solimena e di Francesco De Mura, che gli impongono la camicia pulita. Saranno i francesi del secondo ‘700 a tentare di rimodulare la scrittura sciolta, antinaturalistica, delle tele della chiesa dei Girolamini o del soffitto della cappella del Tesoro nella chiesa di San Martino, dipinta in un fiato e in un solo giro di pennello.

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