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Marco Tonelli. I musei, bene “non essenziale”

La Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, Venezia La Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, Venezia
La Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, Venezia
La Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, Venezia

Un intero settore professionale si è arreso a una chiusura come quella dei musei che appare sempre meno comprensibile e sempre più insensata

La chiusura dei musei civici veneziani fino al 1 aprile 2021, covid o non covid, non può essere vista come un evento straordinario, eccezionale (più o meno discutibile), ma come il destino stesso dei luoghi definiti, ormai a torto, “della cultura”. A torto perché non si valutano per il loro impatto sostanziale, cioè appunto culturale, ma monetario. Di cassa, biglietteria e visitatori e di mera sostenibilità economica. Questa era una verità prima solo sottintesa, ora evidente. Il che non vale ovviamente solo per Venezia ma per tutta l’Italia.

Un intero settore professionale si è arreso a una chiusura che appare sempre meno comprensibile e sempre più insensata. A parte qualche appello inviato al Ministro dei cosiddetti “beni” culturali per riaprire i musei, qualche incontro zoom o lettera aperta, niente il nostro settore ha dispiegato realmente in campo per far cambiare le cose. Per far sentire una voce forte di dissenso e di critica culturale. Piuttosto, ci siamo preparati e ci stiamo preparando (direttori di museo, curatori, artisti, pubblico e via dicendo) per una riapertura che prima o poi verrà. Chissà però in quali situazioni.

Che l’arte (come valore culturale e contenuto) fosse un apparato inefficace e spuntato se al di fuori delle logiche del mercato e dei media, lo sapevamo bene tutti. Senza tirarne mai veramente le conseguenze, cosa che dobbiamo fare ora. Senza un sistema di comunicazione forte alle spalle, di capitali, di spinte politiche, fare mostre, pubblicare libri, organizzare convegni lo si fa per sé, per il piacere di farlo e per i pochi che condividono questo stesso piacere (cioè per la Cultura in senso lato). Ora a molti di noi è negato anche quel piacere e il mondo va avanti lo stesso, peggio di prima ma non si ferma.

 

Marco Tonelli
Marco Tonelli

Che fare? Quanto ancora subire questa detenzione culturale, che di certo l’uso di piattaforme digitali allevia, allenta, ma non risolve? Così come mostre, visite ai musei e presentazioni on line aiutano ma non risolvono, anzi illudono che ci si possa adeguare a un nuovo e irreversibile scenario? E lo stesso dicasi per musica e teatro. Che l’arte, come insegna il caso di Venezia, sia parte integrante dell’industria culturale e turistica ben venga. In nome di ciò abbiamo visto e continueremo a vedere esposizioni strabilianti e memorabili, musei ipertrofici e felicemente allestiti. Che però tutto dipenda solo da questo preoccupava prima e ancor più oggi.

Nessuno è innocente. Siamo tutti complici di questa logica, che abbiamo alimentato producendo eventi culturali senza preoccuparci di saldarli alla terra ma solo farli viaggiare in rete e sulla stampa specializzata. Cultura infatti, come ci ricorda Terry Eagleton in L’idea di cultura, viene dal verbo latino colere, cioè coltivare. Quindi seminare perché qualcosa cresca per darci nutrimento. Ma cosa abbiamo seminato in questi decenni attraverso le nostre pratiche culturali, se oggi, in una situazione di emergenza, anche la cultura viene ritenuta “non essenziale”, nonostante la sua immaterialità, la sua facoltà cioè di eccedere i consumi per farsi valore identitario?

Tempo fa ho sentito affermare in pubblico da un pittore, durante la presentazione di una sua mostra: “Ogni giorno, prima di andare a scuola o al lavoro, dovremmo andare a vedere la Pala Pesaro di Giovanni Bellini [conservata al Museo civico di Pesaro], ci farebbe bene alla salute, allo spirito, all’umore”. Nella sua apparente ingenuità, niente di più vero. Il che ovviamente potrebbe valere per le centinaia di migliaia di opere d’arte sparse in ogni città, comune, paesino italiano. Tra chiese, collezioni, fondazioni e musei pubblici. Funzione terapeutica quella dell’arte come il teatro per gli antichi greci, ma ora drammaticamente ignorata e negata.

 

La Pala di Pesaro di Giovanni Bellini
La Pala di Pesaro di Giovanni Bellini

Che l’arte possa essere una medicina lo sa bene chi la pratica, la vive, la contempla. Meno chi la considera solo parte del sistema dell’industria, dello spettacolo, della propaganda politica o dell’intrattenimento. Se dunque i musei sono per lo Stato e le amministrazioni pubbliche un peso, una spesa “non essenziale”, un buco di bilancio e non un investimento, la cosa migliore sarebbe chiuderli del tutto (risparmieremmo sul riscaldamento, luce e manutenzione ordinaria) e mettere le opere in deposito o anche cominciare a venderle per fare finalmente cassa e utilizzare gli introiti per i beni essenziali: i consumi, le attività commerciali e la crescita del Pil.

Sarebbe più dignitoso e corretto che dichiarare la cultura un bene ma allo stesso tempo non essenziale. Come dire che la legge va rispettata ma non sempre, che l’ambiente va protetto ma a giorni alterni o che gli individui sono uguali ma alcuni “più uguali degli altri”.

Marco Tonelli

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