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Nicola Genovese. Power 100 list, concetti senza complessità

Nicola Genovese, S.H.T.F. the prologue Le sauvage, 2019, Cabaret Voltaire, Zurich Nicola Genovese, S.H.T.F. the prologue Le sauvage, 2019, Cabaret Voltaire, Zurich
Nicola Genovese, S.H.T.F. the prologue Le sauvage, 2019, Cabaret Voltaire, Zurich
Nicola Genovese, S.H.T.F. the prologue Le sauvage, 2019, Cabaret Voltaire, Zurich

L’artista Nicola Genovese introduce una chiave di lettura nuova nel dibattito aperto dalla lista di ArtReview. Fra Males studies, White Privilege e superficialità dell’art world

Un nostro articolo pubblicato nelle scorse settimane prendeva spunto dalla lista “Power 100” dei soggetti più influenti nel mondo dell’arte nel 2020, pubblicata dalla rivista ArtReview, per proporre alcune riflessioni sulla deriva “sociologica” della creatività contemporanea. Sul tema è poi intervenuto Marco Tonelli, storico e critico d’arte, direttore artistico del museo di Palazzo Collicola a Spoleto. E ancora Andrea Bruciati, direttore di Villa Adriana e Villa d’Este di Tivoli, l’artista Bruno Ceccobelli, il critico e curatore Daniele Capra, Giacinto Di Pietrantonio – critico, curatore, saggista – e poi l’artista – acuto osservatore dei fenomeni socio-artistici – Nicola Verlato. Ora la parola passa ad un’altro artista, Nicola Genovese, che da tempo studia molte delle questioni oggetto di questa inchiesta…

La discussione in corso sulla Power 100 di ArtReview e, nello specifico, sui paradossi del discorso accademico nell’arte mi vede particolarmente coinvolto. Il dottorato in Sudafrica che sto portando avanti è un practice-based PhD che consiste nell’interazione tra teoria e pratica. Teoria e pratica dovrebbero svilupparsi in un percorso parallelo dove l’esito visivo sostiene gli aspetti teorici e viceversa. Anche se i rischi di usare la teoria come un’aggiunta arbitraria a un’opera visiva che magari parla attraverso la materialità di tutt’altro, sono dietro l’angolo.

La mia ricerca tratta di temi legati alle mascolinità bianche attraverso la prospettiva delle arti visive e performative. Una parte del dottorato è inoltre dedicata alle ambivalenze delle mascolinità italiane e a come esse si intersecano con il nuovo populismo antimodernista. Il punto di riferimento dei cosiddetti Males studies è l’opera di R.W. Connell, e nello specifico il suo concetto di mascolinità al plurale (masculinities). La studiosa introduce la necessità di affrontare le diverse mascolinità messe in atto in base al contesto socio-culturale. Analizzando come classe sociale, razza, orientamento sessuale, religione, dis-abilità, età e livello di educazione si intrecciano.

Per la prima volta il concetto del maschio bianco cis-eterosessuale (MBCE) è analizzato impiegando gli strumenti della teoria intersezionale. Grazie a cui Connell evidenzia la necessità di vedere le mascolinità come prodotto di una miriade di fattori più o meno in stretta relazione con il patriarcato, piuttosto che come un’unità granitica. Per esempio mettere sullo stesso piano un maschio bianco greco etero, con la pensione minima, con mille acciacchi e scarsamente istruito, con un maschio, bianco, etero, fisicamente abile, sui trent’anni, bancario, laureato che vive a Londra è a dir poco una semplificazione.

La Power 100 mostra che si son fatti passi da giganti verso la diversificazione anche attraverso la riduzione di MBCE nelle posizioni chiave. Un atteggiamento che è giusto e necessario, visto lo strapotere negli ultimi millenni. Questa dinamica però, porta con sé una semplificazione che ha come conseguenza l’esclusione dalla discussione, sui temi di genere e razza, di qualsiasi MBCE perché automaticamente percepito come complice di sessismo, violenza e varie forme di prevaricazione. L’intersezionalità è una delle keyword più in voga nel linguaggio accademico dell’arte. Ma viene usata a sproposito specialmente quando il grande assente è la classe sociale.

Kirby Moss, The Color of Class- Poor Whites and the Paradox of Privilege
Kirby Moss, The Color of Class- Poor Whites and the Paradox of Privilege

Kirby Moss, un antropologo giornalista afroamericano, nel suo dirompente The Color of Class: Poor Whites and the Paradox of Privilege getta una riflessione non sempre sufficientemente elaborata sui paradossi del White Privilege. Specialmente quando il privilegio di essere bianchi viene diminuito dal fatto di essere economicamente marginalizzati. Come capita ai cosiddetti white trash del Mid-West, esclusi a loro volta dai bianchi più agiati. Ma Moss si ritrova in quel contesto privilegiato come accademico e figlio di una famiglia facoltosa, nonostante il colore della sua pelle.

La classe sociale dovrebbe essere infatti un punto di partenza per una vera diversificazione del mondo dell’arte. Dove la possibilità economica di pochi di studiare in accademie di prestigio internazionale crea un’alta società post-razziale e post-genere (ma non post-classe). Dove la razza e il genere sono in realtà tratti identitari salienti per il posizionamento nel mondo dell’arte. L’eterosessualità a sua volta dovrebbe essere considerata non superficialmente solo come la manifestazione della dittatura eteronormativa binaria, ma come una pluralità di comportamenti.

La complessa tassonomia riscontrabile nelle più di trenta categorie di genere presenti in Tinder non è utilizzata per investigare le sfumature dell’eterosessualità. C’è poi da notare come sia in atto una deriva essenzialista nel movimento LGBTQI+, dove la critica alla verità biologica e l’apologia dell’identità come costrutto sociale sta lentamente lasciando spazio a verità assolute di stampo deterministico in cui addirittura la bi-sessualità viene marginalizzata perché collusa intrinsecamente con la dittatura eteronormativa.

Come la Power 100 indica, nel mondo dell’arte esistono di fatto una semplificazione sistemica e un essenzialismo di fondo, che portano in molti casi a un pensiero unico o nei miglior dei casi a una polarizzazione radicale. Una superficialità che si manifesta, specialmente negli artisti, nell’uso di parole chiave d’effetto – come post-coloniale, antropocene, fluidità –. E citazioni dei soliti noti che vengono ripetute come un mantra al fine di ottenere la membership del gruppo più influente in quel momento. Un senso d’insofferenza nei confronti di una complessità che potrebbe demolire credi radicati e che quindi va allontanata nel nome di una conoscenza basata su semplicistici slogan.

 

Nicola Genovese, S.H.T.F. the second chapter, 2019, Pitseng Festival, Johannesburg
Nicola Genovese, S.H.T.F. the second chapter, 2019, Pitseng Festival, Johannesburg

In questo scenario la valorizzazione della differenza da parte del mondo dell’arte sembra spinta più da un meccanismo di ricerca dell’esotico, mai sopito nella civiltà occidentale, piuttosto che da una volontà di apertura a dinamiche identitarie minoritarie. Infatti la spinta istituzionale a includere differenti identità di genere e razziali nelle mostre, nelle pubblicazioni e nel dibattito accademico non ha ormai nemmeno più a che fare con il senso di colpa dell’uomo bianco, ma è semplicemente una precisa strategia di auto conferma attraverso l’esposizione pornografica del nuovo freak, che è lo stesso che poi vediamo in qualsiasi rivista di moda. Il forte intreccio con un neo liberalismo che si alimenta del diverso al fine di creare nuove fasce di mercato risulta più che ovvio.

Nella corsa sfrenata alla creazione del nuovo feticcio mainstream abbiamo visto così gli artisti provenienti dai Balcani e poi a ruota dalla Cina, dal Nord Africa, le persone di colore, i diversamente abili, i queer e i trans. Una reiterazione continuativa che ingabbia così non solo le istituzioni, ma l’intero sistema dell’arte. Poi ci sono le persone comuni che lottano, fuori dalla bolla dell’arte, contro la violenza di genere, la discriminazione razziale e i salari troppi bassi. Ma questa è un’altra storia che forse al mondo dell’arte, oggi, non interessa.

Nicola Genovese

http://www.nicolagenovese.org/

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