Youssef Nabil (1972, Il Cairo) è artista e fotografo. Palazzo Grassi di Venezia gli ha dedicato l’esposizione Once Upon a Dream, che sarà visibile – appena possibile – fino alla fine di marzo 2021. Nel frattempo, questa intervista propone uno sguardo approfondito e intimo sulle sue pratiche artistiche: il lettore è invitato sotto la sua pelle.
Nabil viaggia spesso, vivendo tra Parigi e New York. La sua passione per il cinema, in particolare quello egiziano, e la sua abilità con l’antica tecnica della fotocromia – che consiste nel dipingere con gli acquerelli le fotografie in bianco e nero – gli hanno permesso di sviluppare un processo artistico unico.
La sua carriera comincia nel 1992, e dal 2010 utilizza anche il supporto audiovisuale: il suo primo cortometraggio You Never Left (2010) è una metafora della sua vita e del viaggio; I Saved My Belly Dancer (2015) racconta il fascino che la tradizionale danza del ventre ha esercitato su di lui, mentre Arabian Happy Ending (2016) raccoglie in 28 minuti centinaia di scene d’amore del cinema egiziano degli anni ’40. Queste tre opere fanno parte della mostra a Palazzo Grassi, assieme a tutte le altre che verranno citate.
Durante tutta la sua carriera, Nabil fotografa celebri donne del mondo dell’arte, quali Tracey Emin, Marina Abramovic, Louise Bourgeois, ma anche grandi attrici come Isabelle Adjani, Charlotte Rampling, Anouke Aimée e Catherine Deneuve.
Nel suo lavoro sono costanti vari temi e concetti: il viaggio, le tradizioni arabe, il velo, come l’identità dell’essere umano e la morte.
Qual è stato l’impatto dell’emergenza Covid sul suo lavoro? Durante la quarantena dove si trovava e come ha vissuto/vive questo periodo: il confinamento ha stimolato o bloccato il suo lavoro?
È un periodo che mi ha posto davanti a una realtà altra. Tutt’a un tratto, la priorità è diventata come proteggere le persone a noi vicine. Riguardo al lavoro, avevo previsto dei viaggi: un’esposizione in Brasile al museo MASP di San Paolo, un’altra a Valencia, in Spagna, al museo IVAM. Tuttavia, la data di chiusura dell’esposizione Once Upon a Dream a Palazzo Grassi è stata posticipata di quattro mesi: rimarrà aperta fino a Marzo 2021.
Nel complesso, è un periodo molto particolare: aspettiamo e non sappiamo cosa aspettarci, come tutti. Nel mio caso, non uscivo molto spesso, dal momento che lavoro tutto il giorno. Quando uscivo era per un appuntamento o una cena, ma ora non c’è più niente di tutto questo. Devo restare a casa mia tutto il tempo e questo mi disorienta e inquieta. Ogni tanto uscivo per prendere aria, ora quando esco è come se mi appellassi a questa specie di “nuova norma”, vivendo in un periodo di pandemia. Questo momento non mi ispira molto ma mi invita a vedere la vita, a vedere le relazioni, in maniera differente. Ci sarà un prima e un dopo la pandemia.
Questa domanda si lega, in qualche modo, a quella precedente. Oggi più che mai, la morte è un soggetto di cui sentiamo spesso parlare attorno a noi. Sotto certi aspetti, la tecnica che lei sfrutta, la fotocromia, immerge la foto in un’atmosfera che pare vicina all’onirico o, perché no, alla morte; un’atmosfera che inserisce i soggetti e i paesaggi in uno spazio-tempo che non sembra della vita reale.
Che ruolo occupa l’ossessione della morte nel suo lavoro? Durante il suo discorso al Teatrino di Palazzo Grassi in settembre lei ha detto: “È surreale pensare che resteremo qui per un certo periodo di tempo” e durante un’intervista: “Sono sempre stato consapevole di questo, che vivere è partire e partiamo molte volte… finché non moriamo e lasciamo la vita”. Dunque, per lei vivere è come sognare costantemente? Faccio riferimento ad alcune delle sue foto: Hope to die in my sleep, 2005; I leave again, 2005; My time to go, 2007; I will go to paradise, 2008; Say goodbye 2009; Depart, 2011.
La morte non è qualcosa che mi ossessiona veramente, accadrà a ognuno di noi. Ci sono persone che vivono la vita pensando che succeda solo agli altri e non a loro stessi, fino al momento in cui capiamo tutti che anche noi dobbiamo partire. È qualcosa che può apparire triste, ma allo stesso tempo la morte è sempre presente: continuiamo la nostra vita in parallelo a tutto questo. Poiché esiste la vita, esiste la morte, così come il giorno viene con la notte. Se vuole, è l’altra faccia di ciò che ognuno di noi vive. Poi c’è l’idea che tutto ciò che facciamo, che compriamo, che viviamo, un giorno se ne andrà, e cioè che tutto ciò che ci appartiene apparterrà a qualcun altro. Anche questo è inquietante e destabilizzante.
Personalmente, mi sono reso conto di tutto questo a un’età molto prematura, quando ho scoperto che tutti gli attori che vedevo nei vecchi film, quando ero in Egitto, erano deceduti. Per me è stato un vero shock! Avevo quattro o cinque anni: adoravo questi personaggi così belli e magici, che tornavano a noi attraverso delle storie alla televisione ma che non erano più al mondo. E in quel momento ho preso coscienza del potere dell’immagine e della fotocamera: quest’ultima è il primo strumento che l’uomo ha inventato per conservare un momento e, ovviamente, è stata la base per i video e l’arte del cinema che l’ha seguita.
L’immagine, il fatto di poter impressionare, fissare l’immagine di qualcuno per guardarla più tardi: in questo è insita l’idea di eternità e di conservare il tempo – poiché il tempo non ci appartiene. Abbiamo un tempo per vivere e un altro per morire. Dunque, tutto ciò ha cambiato la mia visione dell’esistenza e della vita, della mia vita.
È un soggetto che ricorre molto nei miei autoritratti, come dice lei, perché so di essere un visitatore in tutti i luoghi in cui vado. So che sono lì per qualche giorno e che poi partirò. Lo stesso vale per la vita: a mio parere siamo qui, in quanto visitatori, per un certo periodo; il tempo passa veloce e poi dovremo partire tutti. Per me è una realtà, quella della morte, che cerco di non ricordare troppo spesso, eppure è sempre presente.
Ogni volta che viaggia per lei è come cominciare una nuova vita? E, di conseguenza, ogni volta che lascia un luogo è come se una parte di lei morisse?
No, non è esattamente come se morissi. È piuttosto come un film: io vivo la vita come se guardassi il mio film personale. In un film c’è una storia, un senso, e una fine. La fine sta per la morte, che arriverà per tutti, ma non sappiamo se il nostro film sarà un lungometraggio o un cortometraggio, non sappiamo quando il film si fermerà. Non sappiamo quando, nella sala in cui siamo seduti per guardare sullo schermo il film della nostra vita, si accenderanno le luci e diranno “Il film è finito, ora bisogna andarsene”. È un po’ questo per me la vita. E quando viaggio sono cosciente di star vivendo una storia, di star approfittando di un’altra visione del mondo, ma sono anche cosciente del fatto che sia un tempo per partire e lasciare quel luogo.
Quando parto, per me non è come una morte, ma al contrario quando mi sveglio ogni mattina, per i primi due o tre secondi non so dove mi trovo. Dopo, comincio a vivere la vita che conosco, ma penso che ogni volta che dormiamo avvenga una mini-morte: andiamo altrove, in modo così semplice. Chiudiamo gli occhi, partiamo per un viaggio altrove, ma sappiamo che siamo sempre qui. Per me la vita e la morte sono questo: entriamo in un’altra dimensione e idea dell’esistenza che non è quella che viviamo ma è altrettanto reale. Io credo in tutto questo; ci sono persone che non ci credono. Molti miei amici pensano che, una volta morti, non ci sia più l’anima, non ci sia più niente. Sfortunatamente, io non sono d’accordo. So che la scienza è presente per fornirci sempre una prova scientifica, ma ci sono cose che non possiamo provare scientificamente. Io credo in ciò che provo e sento.
Il tema del viaggio e del non sentirsi mai a casa propria, un visitatore ovunque, è sempre presente nel suo lavoro. Tuttavia, trovo che lei mantenga viva la memoria delle sue origini, non è vero? (penso a Self-portraits with roots, 2008, in cui le radici dell’albero sono una bella metafora con le proprie radici, e il video You Never Left, 2010).
I suoi autoritratti sembrano configurarsi come un diario personale, eppure in molti non si vede il suo viso; come mai? In molti di questi è vestito alla maniera araba, con una tunica. È come se volesse mostrare la sua provenienza quando si trova in altri paesi, come se fosse un mezzo per mantenere in vita l’Egitto nei suoi ricordi.
Durante la conversazione con Marina Abramovic, risalente al 2012, quest’ultima commenta: “Vorrei parlare di questa foto che mi piace molto, dove sei steso sulle radici di un albero. A mio avviso è una delle foto chiave che permette di comprendere il tuo lavoro, perché è come se tu fossi sopra una sorta di ponte tra la tua cultura e tutte le altre. […] Quando guardo questa fotografia […] c’è anche questa fragilità, questa vulnerabilità che sono percettibili perché hai l’aria di essere un bambino; sei nelle radici dell’albero, al contempo al riparo e vulnerabile, poiché queste potrebbero anche inghiottirti. Ci vedo una sorta di linea tra l’ombra e la luce.”
Vivo gli autoritratti in modo molto personale. A volte sono seminudo, ma la maggior parte del tempo indosso la Djellaba, che è la tunica egiziana, perché mi ricorda il mio paese, l’Egitto. Mi sono vestito con la Djellaba un po’ dappertutto, è una tenuta semplice, molto egiziana e orientale, mantengo la mia identità ovunque vada, porto il mio paese con me. Non mi vesto così per uscire, ma sono tenute che colleziono personalmente.
La maggior parte del tempo, quando faccio degli autoritratti, non guardo la fotocamera, sono di spalle. Questo traccia una linea di connessione con il concetto che le ho spiegato prima, che è l’idea di essere di passaggio ovunque, che è un’idea della condizione umana. A volte non è importante vedere il mio viso perché potrebbe essere chiunque.
In merito ai viaggi, qual è il suo legame con l’Italia? Quando l’ha visitata la prima volta? Le sue avventure italiane hanno ispirato il suo lavoro? Penso a Self Portrait with Botticelli, 2008 (qui sotto).
Mi rendo conto di quanto l’Italia sia importante per me. Innanzi tutto, perché è stata luogo di due mie grandi esposizioni personali. La prima è stata alla Villa Medici di Roma, nel 2009, e la seconda è quella in corso al Palazzo Grassi di Venezia.
La prima volta che ho visitato l’Italia è stata nel ’93 a Milano, ma sono tornato molte altre volte in Italia, è il paese che ho visitato di più. Sono stato quasi dappertutto… Milano, Roma, Venezia, Napoli, Capri, la Sardegna, Bologna, Pisa, Verona, Firenze, Torino… Adoro l’Italia.
Ma anche Botticelli è un collegamento con l’Italia: Primavera è stata la prima opera d’artista che ho conosciuto da ragazzo. Le racconto questa storia: negli anni ’70, i miei genitori hanno visitato la Fiera del Libro al Cairo e sono tornati a casa con una grande riproduzione della Primavera di Botticelli stampata su tela, che hanno inquadrato e appeso alla mia camera; io avevo sei o sette anni. In quel periodo, pensavo fosse orribile, era proprio sopra il mio letto, e lei può immaginare come un bambino non volesse quel genere di pittura nella sua camera. Ho vissuto vari anni con questa immagine sul letto, era l’ultima cosa che guardavo prima di addormentarmi e la prima che vedevo la mattina al mio risveglio. Dunque, è stata la prima opera d’arte con cui mi sono rapportato, anche se non sapevo chi fosse l’autore né quale fosse il titolo. Siccome non conoscevo Botticelli, avevo dato una personale interpretazione al dipinto: vedevo delle donne seminude con una figura, quella a destra, [Zefiro] che associavo a un diavolo. Dopo qualche anno, ho scoperto chi fosse Botticelli e il luogo di conservazione dell’opera. A un certo punto, decido di scrivere alle Gallerie degli Uffizi di Firenze, racconto questa storia e spiego loro che mi piacerebbe rivivere quel momento e dormire, ancora una volta, affianco a Botticelli, ma questa volta affianco all’opera originale, per fare un autoritratto. Hanno accettato immediatamente, penso che abbiano trovato tutto questo divertente.
Era un lunedì mattina quando sono andato agli Uffizi e ho fatto l’autoritratto (Self-portrait with Botticelli). Attorno a me avevo una quindicina di persone della sicurezza, ma è andata molto bene. Sento quest’opera molto vicina a me, ovviamente per delle ragioni personali.
Nelle sue foto è forte la predominanza di certi colori, come l’azzurro e il rosa (penso a Deux Djellabas, 2007 qui sotto). Attribuisce loro un significato specifico, che simboleggia qualcosa?
Per me i colori servono a tradurre i miei sentimenti e il modo in cui vedo l’opera: traduco visualmente i miei sentimenti. Ci sono certe gradazioni di colore che preferisco: il blu, il rosa, il verde sono i colori che amo. Vedo le mie opere come dei dipinti; pur essendoci la foto al di sotto, i colori arrivano dopo per dire ciò che desidero. In Deux Djellabas, i colori fanno parte degli elementi che trasmettono il messaggio in un certo modo. Mi è sempre piaciuto questo grado di blu [utilizzato in Deux Djellabas], e piano piano diventa il “mio blu”. Ogni artista ha la sua palette, e questa è diventata la mia.
So che, quando scatta la foto in bianco e nero, ne fa anche un’altra a colori per essere il più fedele possibile alla realtà con gli acquerelli, è corretto?
Effettivamente, quando faccio un ritratto di qualcuno, scatto una foto di riferimento, per ricordarmi del colore dei capelli, degli occhi, dei dettagli che mi interessano. Non modifico i colori degli occhi o dei capelli, ma il resto è la mia interpretazione di quella persona. Per esempio, lo sfondo: ci sono volte in cui lo dipingo blu anche se nella realtà non è così, e lo stesso vale per i vestiti. Siccome mi vesto quasi sempre di nero, spesso “vesto” anche gli altri di nero. È la mia visione delle cose e delle persone, ed è questo per me il ruolo dell’artista: mostrare la vita e le persone attraverso il proprio sguardo. È così che dico le cose e che vedo la vita. È sempre così che dico le cose senza dirle. Le foto e la pittura esprimono quello che desidero dire senza proferire parola. Non decido quali colori utilizzare, è una scelta spontanea, non riesco a spiegarlo, arriva in maniera molto naturale.
Sul suo account Instagram vedo molte foto e video con Marina Abramovic. Come l’ha conosciuta e che rapporto avete? Lei ha partecipato alla serie delle Femmes voilées, le donne con il velo. Avete mai pensato di collaborare insieme?
Ci siamo conosciuti nel 2000 in Egitto, lei era venuta per conoscere degli artisti egiziani. Poi, quando mi sono trasferito a vivere a New York, nel 2006, ci siamo rivisti al MOMA: eravamo stati invitati entrambi a un evento e abbiamo iniziato a diventare più intimi. Da quel momento, l’ho fotografata varie volte. È un’amica e artista che ammiro. È raro avere questo genere di amicizia tra artisti. Siamo in accordo su molti argomenti, vediamo molte cose allo stesso modo. È importante avere nella vita questa famiglia di artisti che si supporta: lei mi mostra i nuovi lavori che esporrà e io faccio lo stesso. Abbiamo sempre questo scambio amichevole. Ammiro la giovinezza di Marina, perché con lei non penso mai che abbia 74 anni, penso sia mia coetanea. Forse un giorno potremmo collaborare insieme, ma non ne abbiamo ancora parlato.