Proiettati nell’era dell’organicismo artificiale degenerativo, l’azione combinata delle artiste del 1991 Chiara Fantaccione e Francesca Cornacchini nella mostra Primitivo – realizzata da Simone Cametti, a cura di Valentina Muzi, e fruibile fino al 13 marzo presso la Shazar Gallery di Napoli – spezza il sigillo che teneva separati simbolo e trascendenza; finalmente l’intreccio di fili lucenti può aprire le porte di un multi-universo saturo di domande e risposte irrisolte, paradossi e opposizioni, meravigliosi deragliamenti di senso e infinite costellazioni di iconografie pervase di energia vivifica.
Oggi viviamo in una realtà istantanea, dove tutto può essere acquisito in pochi click. Come vi rapportate alla tecnologia e all’immediatezza che produce?
Chiara: Penso che la tecnologia sia un aspetto centrale della quotidianità, i supporti tecnologici sono passati dall’essere degli strumenti al divenire un’estensione della realtà. L’aspetto che più mi interessa è quello della produzione visiva legata al digitale; la tecnologia, in questo senso, ha consentito una diffusione incontrollata di immagini che non sono rappresentazione, bensì realtà viva. Se la tecnologia è in grado di creare una realtà, non c’è più bisogno di descriverla poiché è lì, pronta a scomparire alla prossima immagine. Questa immediatezza ci consente di vivere tutte le esperienze che desideriamo, ma è un vivere fittizio che inibisce il nostro spirito critico. Con i miei lavori cerco proprio di mettere sullo stesso piano le contaminazioni tra le realtà virtuali e le esperienze reali.
Francesca: Mi domando se la realtà non sia sempre istantanea, in quanto il termine esprime la qualità di ciò che esiste concretamente. In questo momento sono in cuffia ascoltando 100gecs-Money Machine sul mio Huawei P10 plus, mentre rispondo alle domande dal mio Macbookpro. La mia realtà è filtrata da due dispositivi e almeno cinque finestre aperte su Firefox. Tutto questo è estremamente naturale, la tecnologia che possediamo va al ritmo che biologicamente troviamo più adeguato a noi. Penso al Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo di Donna Haraway: “Vorrei sostenere il cyborg come finzione cartografica della nostra realtà sociale e corporea, e come risorsa immaginativa ispiratrice di accoppiamenti assai fecondi”. Attualmente mi ritrovo in un momento “technopessimista”. Non sono contraria al progresso tecnologico, quanto perplessa sul suo impiego, poiché non dovrebbe mai essere schiavo di macchinazioni geopolitiche. Ma, probabilmente, sono solo un’ingenua!
Come si è evoluta la vostra arte dopo il vostro primo incontro? Cosa condividete della vostra poetica artistica?
C: Ci siamo conosciute in accademia, io ero appena entrata a Spazio In Situ, Francesca si è unita l’anno successivo, per cui si può dire che il nostro percorso è simile da questo punto di vista; approcciarsi con un ambiente come In Situ è stata un’occasione di crescita sia per il continuo confronto di idee sia per le diverse esperienze a cui ci siamo approcciate. Questo e altri fattori hanno portato una consapevolezza crescente nel mio lavoro artistico; inoltre, i temi che mi interessano si ampliano costantemente, pur ruotando intorno allo stesso nucleo concettuale.
F: Ho sempre provato una sfrenata passione per tutti quelli che sono i prodotti della creatività. Ho iniziato i miei studi artistici nel teatro per poi laurearmi in scenografia, trasferirmi a Londra per frequentare l’ambiente underground dei club e imparare i principi del video mapping e del sound design. Tornata in Italia ci siamo incontrate in accademia, io scelsi la facoltà di scultura e per una serie di fortunati eventi casuali, siamo diventate membri dello stesso gruppo. Spazio In Situ è per me un utero nel quale dare corpo alle mie ricerche.
C: A Spazio In Situ, lo scorso anno insieme a Federica Di Pietrantonio e Andrea Frosolini, abbiamo presentato What kind of perversion I’m showing off, curata da Porter Ducrist, proprio sulla base di affinità tra le nostre ricerche artistiche. Penso che queste affinità siano generazionali e legate al background culturale di chi è cresciuto con Windows XP, i primi cellulari e fotografie digitali, la musica mp3 e tutto quel tipo di tecnologia “pop”.
F: Io e Chiara facciamo parte della stessa MTV generation che aspettava i video di Britney Spears, dei Deftones, Slipknot, TLC, Placebo e gli Aqua, sedute a gambe incrociate davanti alla tv: poi arrivò Youtube! Tecnologia e Mass Media in un bel frullato distopico al sapore di anni ‘90\2000. È un po’ come farsi una corsa tra i meravigliosi paesaggi di Shangri-La e ricordarsi di non essersi portati l’acqua: bellissimo ma avrai sempre sete! Mi piace pensare di condividere con Chiara la stessa sete nel nostro lavoro! Negli anni la mia produzione è cambiata radicalmente mirando a una comunicazione simbolica e diretta.
Il 14 dicembre 2020 si è inaugurata REFOLDED. Percorsi meta-artistici presso la Fondazione Pastificio Cerere. Com’è stato approcciarsi al concetto di meta-arte? Quale trovate siano i pregi e i difetti della fruizione on-line?
C: È sempre interessante quando l’arte riflette su se stessa. Questo permette allo spettatore di non sentirsi estraneo di fronte a quello che vede e genera delle riflessioni che spaziano dal personale al collettivo. Inoltre, trovo divertente il gioco di citazioni implicite. Quella di Refolded è stata una bellissima esperienza, soprattutto per la collaborazione con i giovanissimi curatori della Luiss Master of Art, ma anche per la sfida che la sua modalità di fruizione metteva in campo. Siamo fortunati a vivere in un’epoca che permette di ottenere ogni tipo di informazione consentendoci di raggiungere virtualmente luoghi e persone lontani. Trovo importantissimo che gli spazi dedicati all’arte siano stati capaci di andare avanti con metodi alternativi. Penso che in nessun modo, però, questo possa sostituire la presenza fisica, il camminare in mezzo alle opere scegliendo il proprio punto di vista.
F: È un momento interessante per parlare di meta-arte. Utilizzare l’arte per nuove interpretazioni può dare un spaccato critico e ironico alla realtà che stiamo attraversando. Per esempio, cosa c’è di più meta-artistico dei Meme? Non è un caso il boom che ha avuto questa forma comunicativa. Penso a Memestetica di Valentina Tanni. Nel mio lavoro la simbologia rituale e architettonica, il ricorso alla storia e al mito, sono elementi frequenti. Il simbolo è un primitivismo che trovo vibrante nel metodo comunicativo. Cerco sempre di abbinare le estetiche del mio background esperienziale con linguaggi precodificati. Refolded è stata un’esperienza emozionante per la disponibilità della Fondazione e per la singolarità del periodo storico. Credo che assisteremo a un evoluzione che permetterà di fruire sempre meglio di mostre on-line. Chiaramente non credo che bere un bicchiere di vino davanti al pc sia piacevole come incontrarsi a una mostra con i propri amici e colleghi: bere, fumare e chiacchierare di quello che si è visto prima di passare all’opening successivo! Ma, per ora, sono grata per ogni forma di divulgazione culturale che possiamo avere in questo momento.
In occasione di <=/SPAC3, nei locali di Spazio In Situ avete dovuto lavorare sul concetto sfuggente di arte immateriale. Cosa pensate a riguardo? Quali saranno le sue implicazioni nel contesto futuro?
C: In questa mostra si è messa in atto una riflessione sul non-spazio, quello virtuale, generata proprio attraverso il suo rapporto con lo spazio fisico, quello espositivo. Quello dell’immaterialità dell’arte non è un tema nuovo ma diverso è il contesto in cui oggi si colloca; se in passato è stata giustificata l’opera attraverso la sua collocazione nello spazio espositivo, smaterializzando anche lo spazio cosa garantisce lo status di arte? Il concetto di arte è immateriale come lo sono le connessioni mentali che essa genera, purché accettiamo che la concretezza esista e si manifesti attraverso una fruizione attiva. La sfida secondo me è stimolare queste condizioni, facendo sì che smaterializzare non significhi annullare.
F: Anche le religioni sono immateriali, eppure il loro prodotto è tangibile. Per me l’arte è immateriale, tanto quanto un credo con tutte le contraddizioni. <=/SPAC3 è un simbolo, al suo interno scopriamo una stratificazione di altri simboli che rimbalzano e si scontrano fra loro nello stesso campo semiotico. Umberto Eco la chiamerebbe “semiosi illimitata”, quel processo di spostamento e rimando di significati tra un simbolo e l’altro, che può essere riprodotto all’infinito, in ogni ambiente che venga scelto come luogo deputato. D’altronde, come specie, siamo passati dalla rappresentazione rupestre di animali a proiettarli fra le costellazioni. Supereremo anche questa impasse. Da che pulpito verrà la predica? Non ne ho idea, lascio che il futuro mi stupisca!
Visione VS privacy. Come pensate si evolverà il pensiero umano su temi quali libertà di azione, censura e diritto all’informazione?
F: I concetti di visione\privacy sono personali. Mi vengono in mente le rivolte di Hong Kong, vere battaglie laser per evitare il riconoscimento facciale delle numerosissime telecamere di cui la città è provvista. Visione vs Privacy, chi vincerebbe se fosse un round di Tekken3? Tutto è mediato dal concetto di morale che vige nel periodo che prendiamo a campione. In fin dei conti sono un’artista che usa bombolette spray e sex toys in molti dei propri lavori, sono di parte! Per esempio, lo sapevi che il mercato dei sex toys è un mercato al femminile? Acquisto e produzione. Extra Cyborg! Come sostiene Haraway: “L’ironia è umorismo e gioco serio. L’ironia è, inoltre, una strategia retorica e un metodo politico che il femminismo socialista dovrebbe valorizzare di più”.
C: Questo è un tema che mi interessa molto e che ho toccato attraverso la mia serie di lavori con le telecamere come Area Videosorvegliata, presentata a Una Vetrina nel 2019, e la più recente Everytime I look at you I fall in love, che seppur con linguaggi differenti cercano di mettere in discussione il concetto di osservazione attraverso un ribaltamento del punto di vista. Il tema della privacy va a sovrapporsi con la necessità di condividere aspetti privati: questo spirito voyeuristico ci rende allo stesso tempo creatori/consumatori di immagini ma anche oggetto delle immagini altrui. Anche l’informazione non è esente da queste dinamiche. In un’era in cui le informazioni sono raggiungibili da chiunque e in qualunque momento quello che effettivamente si verifica è un’atrofia della nostra capacità di immagazzinare avvenimenti a favore, invece, di una comunicazione visiva immediata. Spesso permane l’informazione che si presenta come immagine carismatica, iconica, fotografica con un linguaggio sempre più simile a quello pubblicitario. La censura credo sia quella che quotidianamente mettiamo in atto, scegliendo di mostrare alcuni contenuti piuttosto che altri.
Sbirciando il futuro quali sono i progetti che vorreste realizzare nell’arco del nuovo anno?
C: Abbiamo iniziato il 2021 con la mostra Primitivo di Simone Cametti, curata da Valentina Muzi alla Shazar Gallery di Napoli. Simone ci ha invitato a esporre dei nostri lavori in seguito a una residenza svolta nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga nell’ambito del suo Progetto Bivacchi. Sono stata contenta di questo invito. Stavo ragionando sul tema del paesaggio già da un po’ e volevo iniziare ad approcciarlo attraverso la sua “abitabilità”. Mi ha sempre affascinato il rituale di preparazione del proprio spazio quando si campeggia, la scelta del luogo in cui posizionare la tenda è il passo fondamentale; è un po’ come l’allestimento di un’opera. Il bivacco è quella costruzione a metà tra la precarietà della tenda e l’alloggio; è in muratura, ma autogestito da chi ne usufruisce, per cui richiede rispetto e consapevolezza dell’ambiente montano. Da ciò è nata Composizione per campo base che riflette sulle similitudini tra i rapporti presenti tra elemento artificiale/paesaggio e opera/spazio espositivo. Inoltre ho iniziato un progetto che porterò avanti nei prossimi mesi, sempre legato a paesaggio e spazio, inteso come ambiente e come visione fotografica, che si articolerà in diversi luoghi dell’Appennino.
F: Progetto Bivacchi è stato terrificante quanto illuminante. Natura, freddo desolazione e isolamento tecnologico, quasi un’esperienza sciamanica! Sono felice di partecipare a Primitivo con Rituale per lo spirito totem del ragno, una foto-documentazione dell’azione che ho svolto intorno ai resti di un falò dismesso. Con il carbone della vecchia brace ho segnato ogni masso del falò, con la rappresentazione essenziale di un ragno, accompagnato da una traccia audio di un canto indigeno destrutturato. Attualmente sono concentrata sulla reinterpretazione dei simboli e dell’iconografia storica. Continuo a studiare il binomio tra il linguaggio storico e l’estetica decadente contemporanea. In fin dei conti sono di Roma, l’urbe maxima che decade da millenni. Per il futuro non mi sbilancio, spero ci siano le giuste circostanze per portare a termine gli impegni che sono stati presi.
C: Sì, al momento è difficile stabilire delle tappe per quest’anno, ma alcune cose sono già in programma; come, Made In Italy, una collettiva in Svizzera a cura di Porter Ducrist, che coinvolgerà noi due e il resto degli artisti del gruppo In Situ.
Questo contenuto è stato realizzato da Erika Cammerata per Forme Uniche.
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