Questo articolo è frutto dell’operato degli studenti del Laboratorio di scrittura, iscritti al Master Post Laurea “Management della Cultura e dei Beni Artistici” di Rcs Academy”, tenuto nel mese di gennaio 2021 da Luca Zuccala, vicedirettore della nostra testata. La collaborazione tra ArtsLife e Rcs Academy ha dato la possibilità agli studenti partecipanti al Master, dopo le lezioni di introduzione, pianificazione e revisione dei contenuti proposti, di pubblicare il proprio elaborato sulla nostra piattaforma.
Il Coronavirus ha messo musicisti e operatori musicali con le spalle al muro. Chi non ha la fortuna di avere un nome già consolidato nel settore non viene tutelato nella sua dignità di lavoratore.
L’11 dicembre 2020, in piena pandemia, è uscito McCartney III, il nuovo album di Paul McCartney, scritto, suonato e prodotto quasi interamente dall’ex Beatles. Una situazione simile, ma dovuta a cause ben differenti, gli era già capitata nel lontano ottobre 1968. Ormai ai ferri corti con il resto dei Fab Four, decise di registrare Why don’t we do it in the road, cantando e suonando da solo chitarra acustica, chitarra solista, basso e pianoforte, per dimostrare al resto della band che lui avrebbe potuto cavarsela benissimo anche senza di loro.
Ritornando ai giorni nostri invece, mentre nel resto del mondo imperversava la più grande crisi sanitaria degli ultimi decenni, Paul, al riparo del verde della sua fattoria, circondato dall’affetto della figlia e dei nipoti, incideva in totale autonomia undici nuovi brani dall’atmosfera calda ed intima, prendendo questo periodo come una scusa per rilassarsi e per godersi la vicinanza dei propri cari.
Nel panorama musicale però, non tutti hanno la fortuna di chiamarsi Paul McCartney, e per chi di musica ci campa questi mesi si stanno trasformando in un vero e proprio incubo. E non si sta parlando solamente del singolo musicista, ma anche e soprattutto di tutte quelle maestranze che lavorano intorno ai concerti come un tecnico luci o un tecnico del suono. In un periodo in cui gli spettacoli dal vivo sono stati per forza di cose cancellati e dove anche il solo ritrovarsi con i membri della propria band risulta essere un’impresa, questo settore sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia. Sicuramente una riflessione che il Coronavirus ci ha portati a fare è che la musica non era un lavoro prima del Covid, in particolare in Italia, e forse non lo sarà nemmeno dopo.
Numerosi musicisti, interrogati sul come stiano affrontando questo momento, sono concordi nel parlare di un generale senso di smarrimento. Smarrimento dovuto di certo da un lato ad un problema economico, ma dall’altro anche ad un’impreparazione interiore, come se avessero affidato la loro identità al loro lavoro ed ora che non possono più lavorare, si sentono persi. Ed è così che la mancanza delle luci dei palcoscenici e degli applausi li porta ad improvvisare dirette in streaming e concerti da casa, spesso non dettati da una sincera esigenza artistica, ma più che altro da una sorta di crisi d’astinenza.
Ora siamo convinti che la musica possa essere comunicata anche a distanza, ma non è così. Manca tutto l’aspetto legato all’ascolto dell’altro, alla percezione dei respiri, all’allinearsi dei ritmi e alla condivisione delle emozioni. Ӗ vero che le pause e i silenzi sono elementi imprescindibili per la realizzazione di un’opera musicale, ma questa pausa sta rendendo zoppo il ritmo della nostra canzone e questo silenzio sta diventando insopportabilmente assordante.
Certo non dobbiamo dimenticarci dell’enorme potere salvifico che la musica, come in generale la cultura, possiede. Soprattutto in un momento di sofferenza come questo, poche note di una melodia che ci sta particolarmente a cuore intervengono in nostro soccorso per migliorare il nostro benessere emotivo. Perciò è molto importante che, una volta terminata la pandemia, non tralasciamo il fatto di come la musica sia stata una compagna fedele ed insostituibile, medicina miracolosa per corpo e mente. Dobbiamo dare il giusto riconoscimento a tutti gli operatori musicali che, come Ringo Starr, si muovono più nell’ombra rispetto ai soliti John e Paul, contribuendo però in modo decisivo al successo dell’industria musicale. A questi, devono quindi essere concessigli stessi diritti degli altri lavoratori perché la musica non è gratis, è un lavoro.