Il nuovo film di Avati dedicato alla famiglia Sgarbi conferma la crisi creativa di un regista agli esordi molto promettente. Buona prova di Renato Pozzetto
– Allora, com’è questo benedetto nuovo film di Pupi Avati, che metà di tutti loda, e l’altra metà imbroda?
– Sarò schietto: una cosetta modesta che lascia il tempo che trova. Come ormai tutto quel che fa un ‘fu’ buon autore di cinema, ma parliamo di quando io e te andavamo ancora al liceo. Finite le lezioni, di corsa a casa a pranzare, poi via di nuovo al cinemino d’essai che dedicava mini-rassegne istantanee al giovane fenomeno romagnolo del momento, fresco del successo della Mazurka del barone e del pruriginoso, almeno per noi che ci spremevamo ancora i brufoli, Bordella… Una folata di piadina calda e croccante nel panorama di un cinema italiano tetro e ideologizzato (e non sempre a sinistra) fatto di ‘contenuti’ e di tanti discorsi che abbindolava i compagni più cresciutelli, mentre questo giovanotto ‘orgogliosamente provinciale’, in barba alle pippe e alle turbe degli intellettuali in dolcevita coi primi numeri di Repubblica nella tasca dell’Eskimo, batteva le valli ferraresi per girare i suoi film grotteschi e demenziali e inventare, con La casa delle finestre che ridono il ‘gotico padano’!… Beninteso, mica un nuovo Fellini o un nuovo Antonioni. Macché. Però un moschettiere simpatico, metà Peppone e metà Don Camillo, un signorino un po’ in carne, gentile e con la cravatta unta di ragù. Così me lo immaginavo, da ragazzino, il regista di film come Balsamus, l’uomo di Satana, Thomas e gli indemoniati, Le strelle nel fosso o Tutti defunti… tranne i morti. Poi arrivarono gli anni ’80, la televisione iniziava a spazzar gli ultimi effluvi di identità cinematografica italiana, e c’era chi tentava di conservarne una con la scanzonata nostalgia di un passato quasi mai vissuto in prima persona e ricostruito per sentito dire, proprio come il Pupi Avati di Una gita scolastica, sonora delusione a una Mostra di Venezia dell’83, che segnò un primo crac nella mia relazione con un autore da cui mi pareva lecito attendermi una curiosa alternativa al becero che avanzava…
– In quegli anni non fece anche un film su Mozart fanciullo in viaggio per la Penisola?
– Ahimè sì, Noi tre. Altra faticosissima visione al Lido.
– Però Regalo di Natale è bello, dai!
– Ecco, credo che Pupi Avati sia venuto al mondo – a questo punto posso affermarlo con convinzione – apposta per fare Regalo di Natale (effettivamente una bomba). E rivelare al mondo l’altra faccia di Diego Abatantuono, che fin lì s’era distinto soltanto come Attila e coi suoi Eccezziunale veramente. Non so se mi spiego.
– E poi che è successo?
– Che è successo? Che la piega seria gli ha preso la mano, e il suo cinema ha iniziato ad attorcigliarsi in una manieratura stucchevole, a volte più e a volte meno, senz’altro, ma quel tanto per cui alla fine, devo proprio confessartelo? ho smesso di andare a vedere i suoi film. Con qualche eccezione, perché ai Festival ogni tanto ne spuntava qualcuno in rassegna, e puntuale arrivava la conferma di un autore molto ambizioso, ma fregato dall’esigenza di voler piacere a un pubblico nazionalpopolare ormai rimbambito dalla comicità televisiva e dai toni edulcorati delle fiction. Non quelle di oggi, che almeno tentano di imitare le americane, ma quelle Rai e Mediaset della fine del secolo scorso e dei primi anni di quello nuovo, tutta robaccia che entrava nelle case e si andava a infiltrare sotto i tappeti e negli stipiti di porte e finestre per non schiodare più via, e contaminare la lingua, la moda, le modalità di comportamento degli italiani, comprese le corna e i litigi, seminando le radici dei futuri femminicidi odierni.
– Non pensi di esagerare?
– No.
– Eppure qualcosa di tenero ancora lo ha fatto, più avanti. La seconda notte di nozze, per esempio…
– Con Albanese e la Ricciarelli? Quello l’ho visto. Infatti era in concorso a Venezia. …Massì, ok, una cosetta gentile e con qualche graffio, anche. Ma insomma, ne aveva avuto di tempo per diventare il Nuovo Grande Autore che in sostanza non è mai diventato. Sempre a Venezia ricordo che uscii prima della fine del Papà di Giovanna, ma per motivi ideologici. Ecco, anche questo suo essere cattolico e berlusconiano, quando non dichiaratamente revisionista, beh, mi sta legittimamente sulle scatole. Lo so bene che i partigiani non furono tutti stinchi di santo, ma c’è modo e modo di dimostrarmelo, e se vuoi convincermi usando Ezio Greggio, beh, mi hai perso in partenza!…
– Però, scusa, anche tu, in quanto a ‘ideologia’… Ok, sorvoliamo! Eppure alla fin fine questo ultimo Lei mi parla ancora lo hai visto…
– Sì che l’ho visto. Perché sono amico degli Sgarbi e conoscevo i loro genitori, ho frequentato quella casa costipata di opere d’arte collezionate nell’arco di un’intera vita. A Rina stavo anche particolarmente simpatico, pensa te, perché avevo riconosciuto un Sartorio mozzafiato sparso tra i loro mille tesori. Ovvio che un film tratto dal romanzo dell’anziano papà rimasto solo a ricordare il suo grande amore dopo la morte di lei mi stuzzicava la fantasia. Speravo che Avati, smorzata col tempo la maniera, avesse finalmente conseguito una maggiore e più asciutta definizione di toni, come ha effettivamente scritto qualcuno… Invece, niente da fare. Ha confezionato l’ennesimo dei suoi film ‘tremendini’. Sì, non mi viene di definirli che così, ormai. Ok, c’è il Po, gli argini, le nebbie padane, il jazz e le balere degli anni ’50, la nostalgia per la tenerezza del bel tempo andato, l’intero ‘Emporio Avati’, insomma, ma trascolorato in un candore che vorrebbe essere quello di un pudico regista ottantenne, e che invece suona come la stanchezza di un narratore vegliardo inebetito dalla propria melassa. Produttivamente molto modesto, Lei mi parla ancora scorre, fortunatamente per soli 89 minuti compresi i titoli di coda, con la superficialità e l’inerzia delle fiction italiane di cui sopra. Peccato veder pallidamente emergere da un così tepido e insipido brodino i tratti di quella che avrebbe potuto anche risultare una grande e indimenticabile prova d’attore: Renato Pozzetto, nei panni dell’anziano Giuseppe Sgarbi (sua moglie Rina, che muore subito, è qui una funzionale Stefania Sandrelli), è la prova della scelta suicida del cinema contemporaneo di casa nostra, di essersi ormai da anni sbarazzato della propria anima tenera, schietta e popolare, dimenticandosela in soffitta: le sole briciole di poesia contenute nel film sono esclusivamente farina del volto eternamente bambinesco di Pozzetto, pur appesantito dalle borse dell’età.
– Ho letto che su Facebook molti ti hanno invitato ad essere un po’ più rispettoso verso questo nostro Grande Vecchio…
– Ma scusa, ti ci metti anche tu, adesso? Gli altri possono dire o scrivere che Woody Allen e Clint Eastwood ‘non sono più quelli di una volta’, ‘hanno perso lo smalto’, ‘ormai si vede che non ci credono più neanche loro’ (quando invece non fanno altro che sfornare un nuovo capolavoro all’anno, magari anche assoluto), e io dovrei star zitto per rispetto verso un ‘Gran Signore’ solo perché è un connazionale? Pupi Avati resta comunque un Gran Signore, non l’ho mai negato. Ma penso anche che alla luce della sua produzione degli ultimi 20 (e dico venti!) anni, non vi siano più le condizioni perché possa tornare ad essere anche un Signor Regista.
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