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Si può fotografare senza vedere? Intervista a Massimo Spinolo, autore di “Lei non vede”

Massimo Spinolo

Pubblicato da Ledizioni, Lei non vede è un romanzo che parla di fotografia, di quella che si sposa con l’uomo e il suo quotidiano. Tra le pagine, scritte dal giornalista e fotografo Massimo Spinolo, si articola la vicenda di una fotografa che grazie al proprio mestiere riesce ad affrontare la grande sfida che la vita le ha imposto.

Si mette così in scena l’occasione, mutevole, che la fotografia ha di essere terapeutica, per chi la fa, per chi la guarda e per chi la vive. Una fotografia con voce quotidiana che può riguardare tutti poiché crolli e ricostruzioni sono costanti nella vita di chiunque.

Il libro racconta di una fotografa che deve affrontare una malattia che provoca la perdita progressiva della vista. Una sfida che sembra quasi insormontabile, soprattutto per chi come lei fa quel mestiere. Da dove parte l’idea di questo romanzo? 

Noi stiamo parlando di un’arte che coinvolge innanzi tutto il senso della vista. Li coinvolge tutti in realtà ma mi son chiesto che cosa possa capitare quando il re di tutti i sensi viene meno progressivamente. Noi sappiamo che, per bilanciare, quando c’è una disabilità del corpo esiste una compensazione degli altri sensi rispetto a quello mancante. Questo può accadere anche per quanto riguarda la fotografia? Ho un amico di vecchia data con l’esatta malattia di cui parlo nel libro, la retinite pigmentosa. È un grande appassionato di fotografia e volevo vedere più da vicino questa sua condizione. Gli ho fatto una vera e propria intervista anche con domande riguardanti la fotografia. Ribaltandola poi sul piano del racconto l’ho riproposta nel romanzo e ho costruito attorno una vicenda. Lo spunto è partito dal fatto che qualcuno senza l’udito ha scritto delle sinfonie, perché qualcuno senza vedere non potrebbe scattare delle fotografie? È possibile? Mi sono lanciato in questo paradosso. Poi sarà il lettore a leggerlo come paradosso o come un invito a vedere le cose in maniera differente, con altri sensi. 

Infatti sembra un paradosso: scrivendo il libro ti sei mai chiesto se abbia senso continuare a fotografare di fronte a una vista che viene a mancare? 

Se mi metto nei panni del lettore che legge la quarta di copertina mi viene da dire che sì, è un paradosso. Vorrei fare la stessa domanda al lettore una volta finito il libro. È possibile che il romanzo tra questioni che fa sorgere e provocazioni porti il lettore su una strada differente e faccia capire il senso che sta dietro a questa storia. 

Grazie anche alla pratica fotografica che si sposa con quella terapeutica, il lettore può immedesimarsi nelle pagine del libro. Si arriva a una presa di coscienza sugli argomenti che vengono trattati: righe che parlano, anche in maniera metaforica, di consapevolezza sociale che abbatte i limiti della disabilità, degli snobismi e dei qualunquismi. È questa la tua speranza? 

Nel libro ci sono personaggi che subiscono la malattia e personaggi che hanno la forza di reagire. Una reazione positiva non avviene mai stando soli e Il fatto di aver vicino esempi o sproni che vanno in una certa direzione sono fondamentali. La protagonista vince la battaglia due volte: con sé stessa e con un ragazzo affetto della sua stessa malattia che ha deciso di aiutare, sempre con l’aiuto della fotografia. Quindi certi limiti sono proprio solo nella nostra testa, se qualcuno riesce a contagiare con positività e tenacia gli altri vuol dire che questo percorso è possibile. Migliaia di storie di disabilità in qualunque settore ce lo dimostrano. 

Massimo Spinolo

Perché ha senso mettere in relazione la fotografia alla pratica terapeutica? In questo si palesa l’idea che la fotografia non sia il solo momento dello scatto, intorno a lei c’è un racconto, un prima e un dopo. La Fotografia è una percezione sensoriale, un fatto corporeo e di relazioni? 

La fotografia e tutto quello che ne consegue aiuta a non abbandonarsi a questa situazione. il fare fotografico e la sua visione portano con loro tutto il corpo: in un’immagine ti ci immergi. Facendo una fotografia e guardandola puoi veramente sentirne il suono, il rumore, se è calda o fredda se è ruvida o meno. L’immagine ti parla, di te e del mondo. E c’è un altro paradosso perché oggi ancor di più, con il digitale, questa cosa diventa importantissima. Di fronte ad un’immagine che non possiede una sua fisicità e oggettualità, i sensi giocano un ruolo fondamentale. La cosa è resa ancor più complessa soprattutto per la gran quantità di immagini a cui siamo sottoposti. Un gran numero che tende a deprezzare più che apprezzare. 

Secondo te, come può la fotografia aiutare la quotidianità delle persone? 

Si parla sempre troppo poco della vera definizione della fotografia: la fotografia è un linguaggio. In Italia non abbiamo la cultura dell’immagine, su questo linguaggio siamo piuttosto ignoranti. Mi fa piacere quando per esempio mi contattano le scuole per fare corsi o incontri sulla fotografia: vuol dire che c’è una sensibilità al tema e questo è importante per i giovani. Questo linguaggio quando lo avvicini, lo conosci e lo frequenti è in grado di dare una chiave di lettura del mondo che si aggiunge a quelle che tu hai già. Soprattutto negli ultimi vent’anni l’immagine ha acquisito un’importanza devastante, il problema che quando parli di un’arte che, a costo zero, arriva alla portata di tutti, non di tanti ma di tutti inevitabilmente si squalifica. Forse allora la mission di chi affronta questi temi, mia e di altri colleghi, potrebbe essere quella di portare un po’ di sensibilità per far sì che questo linguaggio si apprezzi e non si deprezzi. Trasferire una passione attraverso un percorso di conoscenza. C’è da dire anche che la fotografia può fare tanto ma resta un linguaggio e come tutti i linguaggi ha bisogno di studio e frequentazione e questo comporta un certo impegno. 

Centrale, nel testo, è il rapporto tra la fotografa e la sorella scrittrice: sottolineare il rapporto tra fotografia e scrittura sembra anche un invito a non darlo per scontato. Come mai hai deciso di affiancare la scrittura alla fotografia? Cosa credi possano dare l’una all’altra? 

Certamente dipende come si accostano l’una all’altra: i vecchi maestri dicevano: “foto spiegata foto sbagliata”. Però in ottica attuale, dove c’è molta incapacità nella lettura di un’immagine, la vicinanza di un altro linguaggio quale che è la scrittura è sicuramente importante. Una scrittura che non si pone come spiegazione o didascalia ma come racconto. Diventa uno scambio simbiotico dove l’una è chiarificatrice dell’altra. Un’immagine che si racconta con le parole e le parole che si fanno immagine. 

Nel libro vengono evidenziati molto bene aspetti e temi importanti della fotografia grazie anche alla messa in scena di alcuni personaggi. Cos’hai messo di te in loro?  

A livello di riferimenti, più vado avanti e meno ho riferimenti fotografici. Paradossalmente trovo molto più stimolo nella letteratura, in alcuni scrittori.  Mi identifico molto nel terzo artista, il fotografo da marciapiede, ma anche nella sorella della protagonista ma in realtà sono presente in tutti i personaggi del libro, questo penso sia inevitabile per chi scrive, come per chi fotografa. Ho montato dettagli e particolari di me stesso associandoli anche ad altri che fan parte di persone e colleghi che conosco personalmente.  Uno dei personaggi è un caporedattore: in lui ho inserito molto di una persona che ho conosciuto e che mi ha formato moltissimo sotto il profilo professionale. Forse non avrà mai scattato una foto ma ne maneggiava parecchie e ne sapeva parlare: anche con modi schiettamente irruenti sapeva dirti la validità di uno scatto o meno. La tua cultura personale influenza pesantemente il tuo modo di fare fotografia, molto di più della tecnica: i riferimenti si trovano ovunque. Io imparo tantissimo anche dalla sensibilità di chi si iscrive ai miei corsi. Nel momento in cui guardo una sua foto è lui a insegnarmi, lui sta facendo il corso a me. 

A proposito di personaggi: non nomini mai un nome, come mai? È come se si passasse dal personaggio ad una categoria superiore: dalla fotografa alla fotografia, dalla scrittrice alla scrittura? 

Giustissimo ed è il bello di un libro, perché non è imposto come un film. Tu leggendolo lo immagini tutto dall’inizio alla fine. Lo stesso libro che leggo io non è quello che leggerai tu. Leggere un romanzo specialmente innesca questa magia, allora ho voluto estremizzare e non dare nemmeno la suggestione del nome ai personaggi. 

Per questo libro e per i tuoi scatti, proprio per il potere d’immaginazione del fruitore, non hai paura che si veda ciò che non avresti voluto? 

Non è una paura, è un auspicio. A volte questo meccanismo può suonare come un complimento o come una critica ma in ogni caso è estremamente affascinante. Poi c’è molta differenza tra chi ha molta dimestichezza con un linguaggio e chi no, sia per la fotografia che per la scrittura. 

Quanto ha influito la pandemia sulla scrittura e sui temi di questo libro e in generale come influisce o come ha cambiato il tuo modo di lavorare? Il covid ha cambiato anche il tuo rapporto con l’immagine fotografica? 

Mi ha fatto specie pensare che questo libro parla di sensi e alcuni sintomi del virus sono la mancanza dell’olfatto e del gusto. Dove va a colpire la malattia? Nel cuore degli strumenti che abbiamo per conoscere il mondo. A livello professionale ha dato un’opportunità perché ha rallentato il tempo e qualunque attività. Ho preso quel tempo e l’ho riutilizzato per recuperare gli scatti del mio archivio. Ho rivisto con una consapevolezza diversa immagini che hanno trenta o quarant’anni. Se ora non si può scattare e non si può creare il nuovo, ecco che il passato ritorna e ridiventa nuovo agli occhi. 

Molto bella la riflessione che fai nel libro a proposito dell’archivio: una quantità di immagini che provoca sentimenti contrapposti, dallo spavento per dettagli dimenticati che in un qualche modo sopravviveranno al fotografo alla dolcezza di ricordi e della storia che riaffiora. 

Verissimo. Notare alcuni particolari che nel tempo della tua memoria sono sbiaditi è molto significativo. È ancor più evidente se si tratta di fotografie che hai scattato tu in prima persona. Nel momento di quello scatto c’eri. Non solo riaffiorano dettagli ma anche esperienze e persone che parlano di un racconto al passato che è ancora valido per gli insegnamenti del presente. 

Massimo Spinolo con la copertina del libro

Le pagine della vicenda si chiudono e appare la copertina: una composizione di rami e foglie autunnali. Arbusti che sembrano inglobati in un blocco di ghiaccio che suda e ostacola la visione del soggetto. Riproduce l’opera realizzata appositamente per la pubblicazione dalla pittrice Chiara Cesana. Un’opera che si sposa bene con le immagini di Massimo Spinolo. Eccolo, il fotografo, con al collo la sua Nikon e il tutto si riassume in pochi frammenti di immagini…scritte: le mani dell’uomo, dita che afferrano la macchina fotografica e la settano nel modo più corretto, dita che impugnano una penna e accarezzano la carta di un taccuino. L’otturatore scatta, l’inchiostro lascia la sua traccia. In fondo le immagini di questa sequenza fanno parte della stessa storia: il racconto per immagini si sovrappone a quello delle parole scritte.

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