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Il mito di Correggio, una grande mostra permanente per la “nuova” Pilotta di Parma. Progetto e Sezioni

Antonio Allegri detto il Correggio, Compianto sul Cristo morto, 1524 circa Antonio Allegri detto il Correggio, Compianto sul Cristo morto, 1524 circa
Antonio Allegri detto il Correggio Correggio: Madonna col Bambino e i santi Gerolamo e Maddalena detta Madonna di san Gerolamo o Il giorno, 1526-1528 Olio su tavola Parma, chiesa di Sant'Antonio
Antonio Allegri detto il Correggio Correggio: Madonna col Bambino e i santi Gerolamo e Maddalena detta Madonna di san Gerolamo o Il giorno, 1526-1528 Olio su tavola Parma, chiesa di Sant’Antonio
“L’Ottocento e il mito di Correggio” è innanzitutto un omaggio a due figure per molti versi fondamentali della storia parmense: Maria Luigia d’Asburgo, Duchessa di Parma, e l’incisore Paolo Toschi. Vuole anche essere una soluzione virtuosa di un problema allestitivo di lunghissima data con cui si sono confrontati tutti i direttori dell’ex Galleria Nazionale. Non a caso, dopo il periodo espositivo si trasformerà in sezione definitiva della grande pinacoteca della Nuova Pilotta. Alle pareti resteranno le opere con i relativi pannelli espositivi, mentre l’ampio corredo documentario di approfondimento e confronto proposto dalla mostra temporanea resterà documentato dal catalogo dell’esposizione. La mostra è già allestita e aprirà appena l’Emilia Romagna tornerà zona gialla. Fino al 30 maggio 2021.

La Rocchetta, teatro di questa “mostra permanente”, infatti è uno spazio cruciale dal punto di vista storico ma di difficile musealizzazione. Vi si trovano le pale del Correggio in un allestimento ottocentesco storicizzato e quindi inamovibile. Esse sono alla fine del percorso, però, cronologicamente decontestualizzate dalla produzione coeva e vengono dopo le opere del Settecento, esposte negli antichi saloni dell’Accademia.

Correggio, Riposo durante il ritorno dall'Egitto detto La Madonna della scodella, 1528-30
Correggio, Riposo durante il ritorno dall’Egitto detto La Madonna della scodella, 1528-30

Esiste da sempre un problema sul come giustificare tale collocazione che questo allestimento finalmente ha risolto: il Correggio di questi spazi, in effetti, non è un Correggio pienamente rinascimentale, ma reinventato dal XIX secolo, a uso dei copisti dell’Accademia. Tirato giù dagli altari delle chiese in cui si trovava, è un maestro ormai borghese che il visitatore trova allestito ad altezza d’occhio per un dialogo a tu per tu.

Per spiegare il senso di questo stravolgimento culturale, è stato perciò creato un percorso ricomprensivo, tipico di un museo contemporaneo cui è al contempo richiesta la narrazione della storia dell’arte e di quella delle collezioni. Con “L’Ottocento e il mito di Correggio”, quindi, il visitatore troverà chiarito il senso della rimozione delle opere dagli edifici sacri da cui provengono e – grazie alla esposizione per la prima volta al pubblico della pittura ottocentesca della Pilotta – il contesto artistico di questa reinvenzione.

Antonio Allegri detto il Correggio, Compianto sul Cristo morto, 1524 circa
Antonio Allegri detto il Correggio, Compianto sul Cristo morto, 1524 circa

Intorno ai quattro capolavori del Correggio – La Madonna con la scodella e la Madonna di San Gerolamo più le due tele provenienti dalla Cappella del Bono – che con il Secondo Trattato di Parigi nel 1815 vennero restituiti a Parma dal Louvre dove erano confluiti per effetto delle requisizioni napoleoniche del 1796, la mostra presenta anche il meglio della produzione ottocentesca del Ducato, nell’epoca in cui questo Correggio “secolarizzato” diventa l’eroe della pittura nazionale parmigiana. Andando alle date, nel 1816 il Palazzo della Pilotta rappresentò un rifugio adatto per accogliere il patrimonio d’arte che doveva essere ricomposto e valorizzato; con il progetto di Pietro De Lama le opere del Correggio trovarono un primo allestimento negli spazi adiacenti al Teatro Farnese, dove era ospitata in passato la biblioteca farnesiana. Tra il 1821 e il 1829, sulla base di un progetto curato da Paolo Toschi, direttore dell’Accademia di Belle Arti e dall’architetto Nicolò Bettoli, furono realizzati i tre saloni conclusi oggi dalla statua del Canova dedicata a Maria Luigia, con un allestimento di derivazione neoclassica. Del marzo 1835, negli spazi della Rocchetta adiacenti ai saloni, è il progetto di un ulteriore allestimento ideato da Nicolò Bettoli e Paolo Toschi che, con l’esposizione nelle salette intime e raccolte della Rocchetta delle opere del Correggio le affidano il ruolo di sancta sanctorum della quadreria luigina, valorizzandole in misura maggiore. Dai Saloni alla Rocchetta, l’allestimento illuminista divenne d’un tratto romantico, documento unico di un passaggio così nodale nella storia della museologia italiana.

I lavori di ampliamento e rifacimento delle stanze terminano circa venti anni dopo, nel 1855, subendo diverse interruzioni; l’esito di tale intervento purtroppo non fu mai visto dai suoi progettisti, che morirono nel 1854. Ad unire il grande maestro rinascimentale e i capolavori ottocenteschi è Paolo Toschi, incisore raffinato, architetto e direttore dell’Accademia delle Belle Arti, fondata nel 1757 dal duca Filippo di Borbone, poi fortemente sostenuta dalla Duchessa. Toschi volle che le due pale e le due tele diventassero strumento di esercizio per gli allievi della sua Accademia. Alcune di esse vennero quindi poste su strutture che le rendessero orientabili per favorirne l’illuminazione, ovvero la visione con ogni luce. Toschi, poi, con il suo ambizioso progetto di riprodurre ad acquerello, e poi di divulgare attraverso incisioni, i Freschi del Correggio, contribuì alla fama del maestro e della città, con la diffusione dell’opera dell’artista in tutta Europa. Lo studio e l’esecuzione degli acquarelli richiese cinque anni di lavoro, dal 1839 al 1843.

Paolo Toschi (scuola di), Gentiluomo davanti la Madonna di Sn Gerolamo del Correggio, s.d.
Paolo Toschi (scuola di), Gentiluomo davanti la Madonna di Sn Gerolamo del Correggio, s.d.

Suoi sono gli acquerelli che riproducono gli affreschi del Duomo e di San Giovanni che si ammirano in mostra tra le due pale, alcuni inviati alla Grande Esposizione di Londra del 1855 a rappresentare l’arte del Ducato. Molte delle sue opere e dei suoi allievi sono perciò esposte in queste sale in contrappunto con gli originali rinascimentali, restituendo al visitatore il senso di una reinvenzione culturale e artistica di primaria importanza non solo per la museologia, ma anche per la storiografia dell’arte italiana.

La visione dell’arte del Toschi, forte della sua formazione parigina rafforzata da rapporti artistici intrecciati in tutta Europa, si dimostrò da subito aperta al nascente gusto romantico per i soggetti storici e per la natura, riuscendo ad ampliare l’orizzonte artistico oltre le stanche riproposizioni di un’arte ufficiale che risentivano di un gusto neoclassico di ascendenza ancora imperiale. In mostra, appartiene al primo filone l’opera di Francesco Scaramuzza rappresentata da una monumentale Silvia e Aminta, inviata nel 1862 ad illustrare Parma all’Esposizione Universale di Londra. Più accondiscendenti al gusto romantico sono i due magnifici Rebel acquistati direttamente da Maria Luigia, le due monumentali tele di Giuseppe Molteni, altro pittore “ufficiale” del ducato luigino mentre la piccola opera di Ferdinando Storelli rappresenta l’estetica di quella che la duchessa volle una longeva e significativa scuola parmense di pittura di paesaggio.

Uno degli ambiti in cui si espresse maggiormente la committenza luigina fu senz’altro quello della pittura religiosa, improntata a una concezione paternalista dello Stato. Le iconografie misericordiose, infatti, o celebranti le attività di elemosina o le elargizioni sovrane si moltiplicarono a dismisura e videro attivi gli artisti ufficiali della corte. Valgano per tutti il San Giovanni Battista di Francesco Scaramuzza e il David con la testa di Golia di Enrico Barbieri. In diverse opere il riferimento ai maestri della pittura emiliana appare declinato in chiave “nazionalistica” di esaltazione del genio parmigiano. Che è anche genio e celebrazione dell’artista, come esprime la fioritura del genere dell’autoritratto.

Nel corso della storia la riproducibilità tecnica delle opere d’arte è stata sperimentata nelle metodologie della fusione del bronzo, del conio delle monete, della xilografia e della litografia come riproduzione della grafica e della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura. Con l’invenzione della fotografia, le cui prime sperimentazioni iniziarono a diffondersi in Italia dal 1839, proprio quando Toschi dava inizio alla mirabile impresa dei “Freschi” di Correggio, la riproducibilità del visibile si liberò dal condizionamento della manualità. Questo nuovo paradigma irruppe, così, nell’antico Ducato costringendo la cultura accademica parmigiana ad emanciparsi.

Paolo Toschi (scuola di), Gentiluomo davanti la Madonna di Sn Gerolamo del Correggio, s.d.
Paolo Toschi (scuola di), Gentiluomo davanti la Madonna di Sn Gerolamo del Correggio, s.d.

Ecco che la pittura di paesaggio risulta ora focalizzata sulle forze – naturali e quindi scientifiche – che caratterizzano la universale vastità del reale e le spettacolari tele di Alberto Pasini, come i diaporama del tempo, riproducono in chiave immersiva i paesaggi esotici in cui si svolgeva la vita dei popoli più remoti. Cecrope Barilli intanto ricerca l’esotico nascosto nel primitivo di classi popolari dedite a forme di esistenza analoghe a quelle delle terre colonizzate. Ed è già un entrare nel nuovo secolo nei drammi di una globalizzazione che perdura ancora ai nostri giorni.

Le sezioni della Mostra

  1. I progetti della Galleria ducale

Un primo progetto di trasformazione della settecentesca “quadreria ducale” lo si deve a Pietro De Lama, direttore dell’Accademia e del Museo di Antichità, che nel 1816 propone il riallestimento delle sale espositive per collocarvi i capolavori rientrati da Parigi e i dipinti provenienti da chiese e conventi soppressi dal governo napoleonico. All’arrivo della duchessa Maria Luigia, giunta a Parma in quello stesso anno, si devono, invece, gli interventi che portarono al riordino delle collezioni e al rinnovamento delle istituzioni culturali ospitate all’interno della Pilotta, dal 1817 furono sottoposte alla tutela del governo ducale. Il notevole incremento delle raccolte rese indispensabile l’ampliamento della sede espositiva, con interventi che interessarono le sale adiacenti al Teatro Farnese, già sede in passato della biblioteca farnesiana. Tra il 1821 e il 1829 venne affidato a Paolo Toschi e Nicolò Bettoli il primo progetto della Galleria dell’Accademia di Belle Arti. Ispirati ai modelli dell’architettura neoclassica, ancora oggi i grandi Saloni della Galleria mantengono quell’ampia visione prospettica che culmina nella nicchia in cui è collocata la statua di Maria Luigia imperatrice in veste di Concordia scolpita da Canova tra 1810 e 1814 cui fa da contrappunto il solenne ritratto di Maria Luigia duchessa di Parma effigiata da Giovan Battista Borghesi. L’ulteriore acquisizione della raccolta Sanvitale nel 1834 e la volontà di creare un luogo deputato alla esposizione dei capolavori di Correggio costituirono l’impulso per la riprogettazione degli ambienti della Rocchetta Viscontea, la parte più antica della Pilotta. L’allestimento realizzato a partire dal 1835 su disegno di Paolo Toschi propose un nuovo concetto museografico prettamente romantico in cui ogni elemento era studiato per celebrare il genio artistico del più importante pittore rinascimentale della città.

Antonio Canova, Maria Luigia d'Asburgo in veste di Concordia, 1810-1814
Antonio Canova, Maria Luigia d’Asburgo in veste di Concordia, 1810-1814
  1. Maria Luigia e la Rocchetta Viscontea

La Rocchetta Viscontea costituisce il nucleo più antico della Pilotta. Costruita tra il XIV e il XV secolo, fu utilizzata come prigione e poi come abitazione per i funzionari della corte. Nella prima metà dell’Ottocento fu in parte concessa all’Accademia di Belle Arti, che poté ampliarsi oltre il Salone che aveva in uso dalla metà del Settecento, esponendo nei suoi ambienti le pale del Correggio mai restituite ai loro altari dopo le spoliazioni napoleoniche ma qui collocate a uso e studio degli allievi. In perfetta continuità con il Salone, le sue sale ospitano oggi i capolavori ottocenteschi della produzione parmense: dalla pittura mitologica, di storia e religiosa, fino alla ritrattistica e alla pittura di paesaggio. In questa sala si trovano alcune delle opere dovute al mecenatismo di Maria Luigia d’Asburgo, moglie di Napoleone, diventata sovrana di Parma, Piacenza e Guastalla nel 1814. Grande sostenitrice delle arti, la duchessa si espresse a cavallo tra un retrospettivo gusto neoclassico di ascendenza ancora imperiale e il nascente gusto romantico per i soggetti storici e per la natura. Appartiene al primo filone l’opera di Francesco Scaramuzza qui rappresentata da una monumentale Silvia e Aminta, inviata nel 1862 a illustrare Parma all’Esposizione Universale di Londra. Più accondiscendenti al gusto romantico sono i due magnifici Rebel acquistati direttamente da Maria Luigia, le due monumentali tele di Giuseppe Molteni, altro pittore “ufficiale” del ducato luigino mentre la piccola opera di Ferdinando Storelli rappresenta l’estetica di quella che la duchessa volle una longeva e significativa scuola parmense di pittura di paesaggio.

  1. Le committenze a soggetto religioso

Uno degli ambiti in cui si espresse maggiormente la committenza luigina fu senz’altro quello della pittura religiosa, improntata a una concezione paternalista dello Stato. Le iconografie misericordiose, infatti, o celebranti le attività di elemosina o le elargizioni sovrane, si moltiplicarono, infatti, a dismisura e videro attivi gli artisti ufficiali della corte. In questa sezione, il San Giovanni Battista di Francesco Scaramuzza e il David con la testa di Golia di Enrico Barbieri sono carichi di riferimenti retrospettivi, nei modi tipici della pittura accademica del tempo in cui la produzione contemporanea è una riattualizzazione degli insuperati modelli nazionali dell’antico. Viene riproposta, con le tre pale della parete settentrionale l’ultima cappella a destra della Chiesa di San Ludovico, già adattata da Ferdinando di Borbone a tempio ducale, e arricchito di queste opere su commissione di Maria Luigia. Nel complesso, in tutte le tele qui esposte, spira il riferimento ai maestri della pittura emiliana in una chiave “nazionalistica” di esaltazione del genio parmigiano. Si avverte ovunque la lezione classicista e intrisa di pathos del Correggio, esaltato come si vedrà nelle sezioni attigue quale maestro capostipite della scuola, mediata però attraverso le rivisitazioni dei Carracci e del Guercino. Un sentimento che si ritrova anche nella tela di Luigi Marchesi, in cui si manifesta una particolare attenzione alla resa dell’identità storica e ai valori culturali dei luoghi rappresentati.

  1. L’Ottocento e il mito di Correggio

Il progetto di pubblicare a stampa “le grandiose e magiche pitture a fresco del Correggio che si trovano in Parma soltanto e che ai nostri giorni sono quasi sconosciute al mondo” (Mavilla, 1992, p.889) contribuì in maniera determinante alla diffusione dell’interesse per il grande artista rinascimentale nel panorama culturale ottocentesco.  Mosso anche dalla preoccupazione dello stato di conservazione precario dei dipinti correggeschi, Toschi e i suoi allievi si dedicarono allo studio diretto degli affreschi e all’esecuzione degli acquarelli preparatori. Grazie al montaggio di alti ponteggi in legno che consentivano una visione ravvicinata delle opere e a un innovativo metodo di lavoro che utilizzava precisi calcoli matematici e strumentazioni ottiche moderne, le superfici curve delle cupole vennero riportate per la prima volta in piano su singole tavolette, senza le deformazioni o gli errori prospettici effettuati dagli incisori precedenti. Una tecnica che offriva la possibilità di restituire l’effetto di morbidezza e di luce degli sfumati correggeschi. Dopo il trasferimento degli affreschi ad acquarello, operazione durata ben cinque anni, fino al 1843, i lavori proseguirono con il riporto del disegno sulla lastra di rame e l’incisione della stampa a bulino ed acquaforte.  Il progetto prevedeva l’esecuzione di 47 tavole cui si aggiungeva il ritratto a stampa di Maria Luigia, che dovevano essere distribuite a dispense, promuovendone la vendita per sottoscrizione in tutta Europa, in un arco di tempo previsto di dieci anni. Nel 1854, quando Toschi morì improvvisamente, le lastre incise già incise erano solo ventidue. Carlo Raimondi, che prese il suo posto nella direzione della Scuola proseguì con gli altri allievi la realizzazione dell’opera che tuttavia mai completata.

  1. I capolavori di Correggio

Al centro del dispositivo didattico creato in Rocchetta per l’Accademia durante il governo di Maria Luigia, tre nuove sale vennero trasformate da Paolo Toschi e Nicolò Bettoli per esporre i capolavori del Correggio rientrati da Parigi dopo le spoliazioni napoleoniche, facendone strumento di esercizio e ispirazione per gli allievi. Qui trovarono una collocazione intima, in piccoli ambienti chiusi e raccolti, a meno di un metro da terra, da dove intrattenere un dialogo a “tu per tu” con i numerosi copisti. Il nuovo allestimento non costituì solo un aggiornamento di gusto, ma una vera e propria rivoluzione culturale dove l’estasi religiosa del Rinascimento lasciò terreno alla contemplazione borghese, pubblica e al contempo privata, all’interno di uno spazio non più liturgico ma laico che contribuì alla nascita del mito moderno del Correggio, nume nazionale del genio parmense. Una delle sale ospitava le due tele provenienti dalla cappella Del Bono situata nella chiesa di San Giovanni Evangelista, di cui nell’attuale percorso espositivo è stata proposta una ipotetica composizione originaria, grazie all’aggiunta della probabile ancona dell’Altare Maggiore, che era stata modificata nei primi anni dell’Ottocento e privata del dipinto originale. Anche le due pale di Correggio, una volta rientrate a Parma vennero sistemate in una sala dell’Accademia a beneficio degli allievi, come mostra il quadro di Johann Anton Pock. La prima delle due opere, la Madonna di san Girolamo, fu collocata in seguito nella bellissima sala ottagona della Rocchetta dove si trova ancora oggi, oggetto fin dall’Ottocento di grande ammirazione da parte degli artisti dell’Accademia, ma anche da numerosi viaggiatori che facevano sosta a Parma durante il Grand Tour in Italia proprio per ammirare le celebri opere di Correggio contribuendo alla diffusione della sua fama presso le grandi corti europee. Quanto alla Madonna della scodella, originariamente nella Chiesa del Santo Sepolcro, dal rientro parigino rimase in questi ambienti, e ritrovò a inizio novecento la sua cornice originale.

  1. Il mito borghese dell’artista

Lo studio del Correggio e degli altri campioni della scuola emiliana venne stimolato da un cambiamento epocale dello statuto dell’opera d’arte e dell’artista. Se fino a quel momento il lavoro creativo era stato connesso a un insieme di precetti e da una precisa gerarchia stabilita dal potere sovrano, lo sviluppo della società borghese aprì spazi di autonomia in cui si inserì una maggiore permeabilità tra generi e soggetti, da cui emerse la figura del genio artistico, avanguardia delle capacità produttive dell’industria. In questa sala sono dunque esibite, dopo i capolavori del Correggio, le conseguenze del loro studio e della loro rielaborazione. Alcuni tra i maggiori protagonisti delle produzioni accademiche vengono quindi rappresentati da opere significative del loro corpus, precedute da un autoritratto – genere in voga di cui le collezioni della Pilotta sono estremamente ricche – che indica il senso profondo della svolta avvenuta e del nuovo statuto conquistato. Alla fine della serie, i capolavori di Giorgio Scherer stabiliscono un legame diretto tra il mito e l’universo intellettuale dell’artista mentre i lavori di Cletofonte Preti esibiscono l’emancipazione delle forme della vita quotidiana. In tutti si avverte la lezione rinascimentale emiliana, rielaborata nel contesto nazionale di un ducato ormai borghese.

  1. L’opera d’arte e la sua riproducibilità tecnica

L’invenzione del genio creativo, risorsa razionale dell’individuo, aprì e si accompagnò a scenari inediti. La figura dell’artista, che servì da avanguardia per un’inventiva tutta borghese, simboleggiò dal secondo Ottocento in poi l’attitudine a cambiare il mondo di ingegneri, architetti, urbanisti, tecnici industriali, imprenditori e finanzieri, tanto più con il generalizzarsi di forme di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Il principio per cui tutto il reale si troverebbe racchiuso in potenza nelle leggi universali della ragione fece il resto e man mano che l’occidente andò scoprendo e sfruttando il mondo per i suoi interessi, la sua estetica ridusse l’Altro a una declinazione esotica del sé. Nella sua celebre monografia su Correggio, il tedesco Julius Meyer descrisse la vita dell’artista come l’affermazione di un genio superlativo destinato fatalmente a conquistare con le sue creazioni le botteghe e le accademie di tutto il mondo per imporvi il suo stile universale. La diffusione dell’opera correggesca attraverso le stampe, riproducibili in serie e facilmente trasferibili da una nazione all’altra e l’espansione del mercato artistico sull’onda delle grandi esposizioni internazionali, contribuirono a riscoprirne il genio e a rinnovarne la fortuna critica presso artisti, appassionati d’arte, viaggiatori, re e principi di tutta Europa, giungendo attraverso le stampe di Toschi fin in America. Nel frattempo, nuove forme di riproduzione delle opere d’arte si andavano affermando nel corso del XIX secolo che avrebbero portato ad abbandonare progressivamente le tradizionali tecniche calcografiche, come la litografia procedimento  di stampa in piano su matrice di pietra, inventata da Aloys Senefelder intorno al 1799, ma più ancora fotografia, le cui prime sperimentazioni iniziarono a diffondersi in Italia dal 1839, proprio quando Toschi dava inizio alla mirabile impresa dei Freschi di Correggio.

  1. Colonialismo, orientalismo, globalizzazione

La competizione industriale tra nazioni, in cui tentò di distinguersi anche il piccolo ducato di Parma, Piacenza e Guastalla inventando le ragioni di una identità tutta emiliana, produsse un’apertura foriera di progressi economici ma anche di drammi epocali ancora in corso. L’incontro con l’Altro stravolse i canoni artistici e produsse un superamento rapidissimo dei generi accademici, spazzati via dalla scoperta della varietà del mondo. Quest’epoca, da cui nacquero i principi e i nodi tragici della contemporaneità, è rappresentata qui nel suo atto di nascita all’interno della cultura accademica parmigiana con l’emancipazione della pittura di paesaggio, focalizzata ormai sulle forze – naturali e quindi scientifiche – che caratterizzano la universale vastità del reale. Le spettacolari tele di Alberto Pasini, come i diaporama del tempo, riproducono in chiave immersiva i paesaggi esotici in cui si svolgeva la vita dei popoli più remoti. Altri trovano contrappunto nell’opera di Cecrope Barilli alla ricerca di un esotico nascosto nel primitivo di classi popolari dedite a forme di esistenza analoghe a quelle delle terre colonizzate. Le Rovine di un tempio nel deserto del Pasini chiudono la serie con un orientalismo su cui si scaglierà il pensiero post-coloniale del Novecento.

L’OTTOCENTO E IL MITO DI CORREGGIO

Parma, La nuova Pilotta

26 febbraio – 30 maggio 2021

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