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Riapriamo i musei. Lì c’è la nostra “Public History”

Il PAC, a Milano Il PAC, a Milano
Il PAC, a Milano
Il PAC, a Milano

“I musei devono essere luoghi dove si va per alimentare i propri problemi di conoscenza”, affermava Franco Russoli. La Public History sviluppa questi temi

Senza utopia non si fa la realtà!”. Sembra lo slogan pubblicitario di una multinazionale passato alla televisione negli anni Sessanta. E invece con grandissimo entusiasmo lo gridava Franco Russoli, ex direttore della Pinacoteca di Brera. Perché il direttore di uno dei musei più importanti d’Italia, definito il piccolo Louvre, sentiva la necessità di cambiare ciò che è stato costruito con fatica e che rispetta le aspettative tradizionali dei pubblici che lo frequentano?

Giorgio Agamben, una volta, al bar con degli amici, e poi in uno dei testi più brillanti mai scritti, “Che cos’è il contemporaneo?”, scrisse che “contemporaneo è l’inattuale”. E cioè colui che sa vedere “come un male, un inconveniente, un difetto, qualcosa di cui la sua epoca va giustamente orgogliosa”. Il contemporaneo è “una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze”. È un’abilità che equivale a “neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale”. Bene, Franco Russoli era una rarità nel panorama intellettuale di quegli anni. E aveva ben intuito che il museo non poteva solo essere un contenitore di memorie passate. E che per nessun motivo la sua funzione doveva risolversi con la mera muta esposizione.

 

Franco Russoli osserva Calder
Franco Russoli osserva Calder

Questo intellettuale ha lavorato tutta la sua vita affinché quella memoria fosse interpellata, decostruita e ricomposta, non solo dagli addetti ai lavori, ma da chiunque volesse riscoprire la propria relazione con il tempo e la cultura. Insomma, il museo doveva diventare un luogo di possibilità, uno spazio vivo, volto all’alimentazione del pensiero critico di ognuno. Quando oggi aspettiamo ansiosi il prossimo Decreto, e ci accorgiamo che va bene aprire una chiesa ma non aprire un museo, assistiamo al crollo delle utopie dei virtuosi esempi del nostro passato. Davvero i musei sono considerati meno di un centro commerciale? Eppure, se decidessimo domani di andare alla Rinascente ed entrare da Alessi, i prodotti che vi troveremmo esposti, in parte sono stati selezionati e esposti all’interno di un Museo del Design.

Questa analisi porta all’attenzione il ricordo di un appuntamento con la storia a cui non possiamo arrivare in ritardo. Ed è quello dell’attenzione allo sviluppo di una nobilissima disciplina, che negli ultimi anni si sta evolvendo in direzione di salvaguardia delle relazioni culturali, e che prende il nome di Public History. Rendere omaggio a questa scoperta significa continuare il lavoro dello stesso Russoli, che in un tempo non troppo lontano, ha investito tutto il suo tempo e ingegno per salvaguardare la nostra generazione. La Public History è un modo di raccontare la storia fuori dal contesto accademico, e cioè interpellando fonti di vario genere, dal cinema alla videotape passando per la fotografia e concludendo con l’analisi di testi musicali.

 

Per la Public History i musei sono centrali
Per la Public History i musei sono centrali

Questo è uno strumento a cui bisogna aggrapparsi in un periodo di perdizione critica, e che può aiutarci a resistere al delirio di onnipotenza a cui assistiamo quotidianamente da parte di chi, esprimendolo alla maniera di Agamben, non è contemporaneo e ignora le conseguenze di questa chiusura culturale o forse le programma. La public history aiuta a mantenerci in allenamento rispetto alla presa di coscienza dei prodotti che bulimicamente sta producendo questa società. Bisogna ricordare che in questo momento storico non si può assolutamente rallentare rispetto allo studio dei fenomeni e dei contenuti che si producono. Perché sono il collegamento alla prossima epoca. Ignorare il fatto che la ricerca deve avvalersi dei luoghi della cultura, per anticipare il prossimo futuro, è un attentato all’emancipazione culturale.

Dovremmo arrivare preparati alle richieste di ciò che ci aspetta. Chiudere le istituzioni culturali significa rallentare una serie di meccanismi che già con gran fatica tentano di cristallizzarsi nel mondo accademico. Questo blocco fa pensare lontanamente al saccheggio della Biblioteca di Alessandria. Si sente più che mai la necessità di riappropriarsi dell’idea che non esistono gerarchie sociali all’interno delle quali c’è una fascia più bassa e una più alta. Siamo tutti testimoni e autori di questa crescita. Chiunque ha la giusta sensibilità per avere un’idea, ed è fondamentale investire sulle relazioni all’interno dei luoghi della cultura e soprattutto sulle discipline sperimentali, come la Public History, che è uno strumento di appropriazione culturale orientata al futuro.

 

La Pinacoteca di Brera, a Milano
La Pinacoteca di Brera, a Milano

Un museo, o un archivio, non sono contenitori di cose. Dobbiamo immaginarli come un grembo materno in cui si sviluppa la vita, la coscienza e la crescita. Entrare nei luoghi della cultura significa diventare in prima persona oggetto di attenzione. “Il Museo deve essere un luogo dove si va per alimentare i propri problemi di conoscenza, più che per subire alienanti e coercitive lezioni. E per questo, si chiamino a svolgere l’attività didattica, la lettura delle diverse collezioni, non soltanto gli esperti della materia, ma gli storici e i conoscitori di altre discipline. Una raccolta di opere d’arte, ad esempio, sia visitata, anche, con la guida di un sociologo, di uno psicologo, di uno storico, di un economista” dice Russoli.

L’arte ha come fine quello di comunicare una conoscenza che spera di scuotere la coscienza di ognuno, all’interno di un’esposizione che richiede un confronto con i pubblici. Andrebbe rivista l’idea dei “musei-contenitori”, che tradizionalmente tendono ad esplicitare più risposte che domande. E che oggi, più di ieri, dovrebbero aprirsi a una libera conversazione con le persone. Facendo delle stesse struttura portante del discorso, e dell’oggetto esposto un motivo di riflessione. Sarebbe interessante se nei musei del futuro, alla fine di una visita, ci fossero spazi dedicati alla libera conoscenza di sé. Si potrebbero immaginare stanze del tempo in cui ognuno ha la possibilità di riflettere su quello che ha visto. E di lasciare un commento che arricchisca il discorso.

Una traccia. Un’impronta che possa testimoniare la continua evoluzione delle riflessione, e che renda il museo organico. “Un museo non è soltanto luogo sacrale, cassaforte o archivio per gli addetti ai lavori. Deve essere soprattutto scuola e laboratorio, cioè recinto in cui la contemplazione e la meditazione si facciano attività vitale. Nella presa di coscienza del proprio stato presente attraverso l’esame della continuità storica, e il confronto con le testimonianze poetiche della condizione umana di altri luoghi e tempi”.

Continua Russoli: “quando l’opera d’arte non sarà più considerata un miracolo o un feticcio, ma quel prodotto dell’uomo che giunge a testimoniare la vita del proprio tempo nella dimensione assoluta dell’eterno, quando sarà intesa come un interlocutore sempre attuale, allora si comprenderà che il dovere di difenderla e ben conservarla non è noiosa pretesa di anime pie e di anacronistici eruditi, ma è impegno di ogni individuo che voglia essere politicamente cosciente del suo ruolo nella società in cui vive”.

 

Umberto Eco
Umberto Eco

Questa società è stata messa in ginocchio da un nemico invisibile, è vero. Ma ciò non cambia che musei e istituzioni culturali devono necessariamente prendere parte nel dibattito sull’attualità, e diventare il luogo dell’emancipazione del pensiero. Non possiamo permetterci di non investire sul futuro e di abbandonare ricerca e sperimentazione. Considerando la resilienza di numerose istituzioni in una rotta differente nei modi ma simile nelle intenzioni, ci sarebbe da chiedersi se la convivenza forzata con questo virus non ci migliori anche come genere umano, abbattendo i confini territoriali e intellettuali. Umberto Eco ha scritto: ”Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità. Ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro”.

Marianna Fioretti Piemonte

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