Tano D’Amico (Lipari, 1942) è un giornalista e fotoreporter. Le sue fotografie sono diventate icone contemporanee sulla violenza e sul potere, testimonianze visive di resistenza, fatti di cronaca e movimenti (contro)culturali. L’intervista è stata realizzata presso AOC F58 (Roma), che ospita la sua mostra Guerra ai poveri.
Arianna Desideri – Quando è iniziato il tuo amore per l’immagine e per l’arte?
Tano D’Amico – Da giovane amavo stare in giro ma, non avendo i soldi né per il flipper né per il calcetto, frequentavo i musei, che all’epoca erano gratis ed erano gli unici posti caldi dove stare – sai, a Milano fa freddo. Mi ricordo che allora lì giocavo con la Pietà di Michelangelo, con l’allestimento di Scarpa, mi incantavo davanti ai nudi e ai quadri.
Poi al liceo capii meglio il mio amore per le immagini. C’era una professoressa che ci portava in Pinacoteca e io mi perdevo davanti a Giovanni Bellini. Sai quando uno è assorbito nel torpore dei propri pensieri? Paragonavo i paesaggi di Bellini alle strade di Milano e la professoressa scuoteva la testa. Sicuramente pensava: “questo ragazzo prenderà una brutta strada”.
A.D. – Cosa ti hanno insegnato gli-le artist*?
T.D.A. – Più tardi, in Spagna, passavo ore al Prado. Ci andavo quando avevo paura, una paura fisica. Quando mi tremavano le mani. E lì ho riscoperto ciò che avevo intuito quando avevo vent’anni (allora ne avevo trenta) e che avevo poi dimenticato: guardando Goya o El Greco ho percepito che anche loro avevano avuto paura. Così per Bellini, che è diventato un pittore eccezionale in un preciso anno della sua vita, in cui chissà cos’ha passato. Dai suoi quadri si vede che è un uomo che ha vissuto la morte altrui come se fosse la propria, ma che ne è venuto fuori. A scuola fanno dimenticare che, se un’opera d’arte non aiuta te, individuo, a superare la paura, a vivere, a immaginare cose belle e cose brutte, resta solo un quadro appeso al muro.
A.D. – Quando hai iniziato a fotografare?
T.D.A. – Quando ho scoperto la vita pubblica, mi sembrava che interessarmi ai musei d’arte fosse rubare tempo ai vivi. Andai in Grecia per un periodo lungo, ad Atene. Ogni mattina facevo dei lunghi giri e un giorno ho visto la piazza dell’università completamente diversa: la polizia con i fucili e i mitra, i passanti con la testa bassa – tranne un signore che l’aveva rivolta in alto, e così ho seguito il suo sguardo. Il tetto dell’università era pieno di ragazzi, una cosa incredibile! Stavano zitti, in silenzio. Allora mi sono dovuto dare un alibi per stare lì, per rispondere semplicemente al “cosa stai facendo qui?”. Dicevo che ero lì per l’arte, che studiavo. Beh… da quel viaggio ho riportato le foto dell’università. Sai quelle storie che cominciano false poi diventano vere?
A.D. – Come definiresti il tuo linguaggio fotografico?
T.D.A. – Le mie immagini hanno delle caratteristiche. Una è che non c’è altro che quello che si dede vedere. Una mia immagine credo che chieda di essere letta tutta, è ciò che ho ricercato in modo conscio o inconscio per tutta la vita. Questo l’ho maturato quando ho fondato e lavorato in un giornale per analfabeti, che era fatto di grandi immagini con brevi testi, così che un nipote alle elementari potesse leggere qualcosa a suo nonno. Mi sono accorto che una persona, meno sa leggere, più legge tutto delle immagini. Anche se un motorino passa per caso, nella fotografia, crede che abbia un senso, anche se spesso non ce l’ha. Allora mi sono detto: “Togli tutto! Metti solo l’essenziale”. Infatti, alcune mie immagini sono su fondo neutro: è la realtà che ti offre il bianco e il nero.
A.D. – Qual è, secondo te, il rapporto tra fotografia e immagine?
T.D.A. – La fotografia è immagine, ma l’immagine è una, nonostante ora si usa dire fotografia “di moda”, “sociale”, “di nudo”. Si divide in due tipi: immagine viva e immagine morta, quella che dice qualcosa e quella che non dice niente. La fotografia è un linguaggio che ti prende la mano, come quando tu scrivi un pensiero e, mentre lo stai annotando, il gesto chiarisce meglio ciò che hai in mente. Il linguaggio fotografico si fonde così con l’immagine che stai cercando.
A.D. – Dove hai trovato le tue immagini?
T.D.A. – Io non ho cercato delle immagini a freddo. Ho avuto sempre qualcosa da fare che mi interessava, che mi prendeva. Anche ora. Credo che l’immagine, anche in un modo vago, uno ce l’abbia dentro. Perché, anche nel flusso, uno riesce a vedere subito la sua che sta arrivando, quella che in un certo senso ha cercato per tutta la vita. E poi c’è la realtà, che gliela regala nettamente migliore. Per questo diffido quando qualcuno dice “siamo sommersi dalle immagini”. È un po’ come quelli che aspettano una persona cara al binario del treno e si credono sovrastati dagli altri esseri umani, ma non capiscono che, seppur in un turbinio di gente, esistono solo l’attesa e il soggetto desiderato. Così è per l’immagine.
A.D. – C’è una vicenda che hai seguito che ti ha segnato profondamente?
T.D.A. – Le storie brutte sono quelle che riguardano le persone più indifese, soprattutto i bambini. Ci sono dei ricordi che non trovano pace in me. Due o tre in particolare mi hanno segnato, ma uno è forse il più triste della mia vita. Avevo già lavorato con gli zingari, che sono stati miei colleghi e amici, quando ho seguito una vicenda che li ha coinvolti durante il Giubileo di Roma del 1999. Una bambina zingara di 16 giorni è stata calpestata e uccisa durante un intervento di polizia. Ho visto la scena di fronte a me. Già l’accaduto è di per sé orribile, ma ciò che non mi ha fatto dormire la notte è stato che nessun giornale ne abbia parlato, nonostante tutti i media fossero stati avvisati. Ero convinto, siccome tutti tacevano, di essere impazzito e di essermi inventato tutto, che non fosse successo niente. Ma sapevo che non era così. Su questa vicenda poi ho pubblicato un libro, Il giubileo nero degli zingari. Sulla copertina c’è il ritratto della madre che piange, con un bambino in braccio a torso nudo; si vedono le lacrime che scorrono sulla schiena del bambino che la abbraccia.
A.D. – Dal nostro dialogo, la fotografia sembra essere qualcosa in secondo piano rispetto a tutto questo…
T.D.A. – Le foto che mi sono trovato a scattare sono derivate sempre da situazioni che mi sono trovato a vivere. Avevo una passione per certi esseri umani, soprattutto per i più svantaggiati. Non ho mai avuto la passione per la fotografia. Tutti restano scandalizzati quando lo dico. Anzi, se ci pensi è una noia, devi tenere tutto in ordine. È come dire a un medico: “hai la passione per lo stetoscopio?”. Io ho fatto tutto per me. Non è solo fotografia, è la mia sensibilità umana.