“Da un’altra prospettiva”: il 7 febbraio dalla pagina instagram dell’exhibit designer Andrea Isola è nato un format che ha come focus l’allestimento analizzato da chi le mostre le crea, ci investe, le cura e le visita. Andrea ha intervistato 24 professionisti del mondo dell’arte tra direttori di fiere e musei, curatori, galleristi e giornalisti, rivolgendo a tutti la stessa domanda: “Sapresti indicarmi, tra le mostre che hai prodotto/curato/visitato quella in cui l’allestimento ha giocato un ruolo fondamentale e per quale motivo?” L’obbiettivo, come spiega Andrea, è quello di far emergere l’importanza che danno all’allestimento gli addetti al settore e sensibilizzare il pubblico su come il volto di una mostra possa cambiare a seconda delle scelte progettuali di allestimento che vengono fatte.
Il contributo #10 è di Vittorio Calabrese, Direttore di Magazzino Italian Art Foundation, che ci racconta la mostra “Non-places and the Spaces in Between” curata da YlinkaBarotto con Chiara Mannarino all’Istituto Italiano di Cultura a NYC nel 2019.
“La mostra celebra gli ultimi dieci anni del Premio New York, un prestigioso premio che è promosso dal Ministero per i Beni e le Attivita’ Culturali, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dall’Istituto Italiano di Cultura a New York, e dall’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, ed è un’iniziativa che ogni anno offre a due giovani artisti la possibilità di vivere e lavorare per 6 mesi a New York. Dal suo inizio nel 2001, viene assegnato ogni anno ad artisti italiana emergenti. La mostra ha presentato opere di otto artisti italiani—tutti vincitori del Premio New York— Giorgio Andreotta Calò, Fatma Bucak, Letizia Calori and Violette Maillard, Ludovica Carbotta, Danilo Correale, Marinella Senatore, and Gian Maria Tosatti.
Questa mostra ha preso come punto di partenza la nozione di “non-luoghi” come definita dall’antropologo Marc Augé nel suo testo “Non-places: Introduction to an Anthology of Supermodernity,” originariamente pubblicato nel 1992. Le opere in mostra hanno offerto indagini uniche sullo stato inquietante della società attuale attraverso varie interpretazioni di spazi individuali e collettivi esistenti e immaginari. In questo modo, hanno offerto riflessioni tempestive e potenti sulle nozioni di identità come plasmate dalle strutture economiche e socio-politiche, lo stato alienante dell’individualismo sostenuto dal capitalismo e l’instabilità dei confini.
La mostra ha presentato opere che non sono mai state esposte prima negli Stati Uniti, come il libro d’artista, “Genova–Ventimiglia–Genova” (2013) di Andreotta Calo; “Fivehundredfortyeight” (2015—18) di Correale; e una nuova opera commissionata da Senatore, “Protest Forms: Memory and Celebration” (2019). Questo lavoro ricorda i tradizionali stendardi religiosi usati nelle processioni cattoliche, una forma secolare di riunione comune. Le frasi ricamate includono slogan politici in vernacolo, creando una polifonia di ideali e credenze che contempla il potere delle azioni comunitarie e invita gli spettatori a celebrare le attuali forme di protesta come mezzi rilevanti per il cambiamento sociale. Durante la serata di apertura, il pianista Ivan Dalia ha eseguito un intervento musicale per accompagnare l’installazione.
Per questa installazione è stato usato il soffitto dell’Istituto per la prima volta—un’impresa impegnativa se si considera le sfide di questo particolare spazio. L’Istituto è un edificio in stile neo-federale costruito nel 1916, dagli architetti Delano & Aldrich. La struttura di cinque piani con terrazza e giardino interno è un landmark della città di New York. Ha tanto carattere e certamente non è un tipico spazio white cube e la decisione coraggiosa delle curatrici Barotto e Mannarino di mettere gli stendardi di Senatore barcollati sul soffitto è una a cui penso ancora oggi. Inoltre quest’opera ha utilizzato due spazi comuni che sono raramente usati. C’è un significato molto forte quando uno pensa all’importanza della comunità nella pratica artistica di Senatore e nell’intenzione di questo lavoro a evocare un momento di incontro comunitario all’esterno. Lo spettacolo musicale ha rinforzato il messaggio dell’opera, unendo il pubblico a partecipare e unirsi.
Il 16 novembre 2019, durante l’arco della mostra, Marinella Senatore ha condotto una processione collettiva a Cold Spring, NY commissionata da Magazzino Italian Art Foundation e curata dalla stessa YlinkaBarotto. Questo evento collaterale a quello della mostra dell’Istituto Italiano di Cultura ha dato seguito al senso di coinvolgimento della comunità avviato dalla performance di Ivan Dalia all’istituto.
Le sculture di Calori e Maillard richiamano allo stesso modo l’opportunità di attivazione in luoghi e situazioni quotidiane perché sono opere indossabili, usate dagli artisti nelle performance. Mettono in discussione questi presupposti e parlano di come le esperienze di vita sono state commercializzate e di come l’architettura è stata utilizzata per legittimare diverse ideologie utopiche.
L’ultima opera che voglio evidenziare è quella di Fatma Bucak. Dopo le disastrose migrazioni causate dalla guerra civile siriana, gran parte del Paese è rimasto con terre non fertili. Di conseguenza, la rosa damascena, che prende il nome dalla capitale, è oggi a malapena presente in terra siriana. Fatma Bucak ha trovato un campo vicino al confine libanese dove le rose vengono raccolte in condizioni difficili. Con l’aiuto di collaboratori e amici – me incluso – l’artista ha spedito queste piante negli Stati Uniti attraverso il Libano e l’Italia, in alcuni casi oltrepassando i confini un po’ clandestinamente. Simboli di abbandono della propria terra e migrazione, questi fiori preziosi ma resistenti rappresentano l’urgente necessità di conservare le tradizioni e il patrimonio culturale che rischia essere cancellato dalla guerra. Con l’aiuto dell’Istituto, Barotto e Mannarino hanno creato un lungo vaso di legno fatto su misura per queste rose fragili perfettamente incastrato sul davanzale della grande finestra che i visitatori passano mentre salgono e scendono la scala principale con il tappeto rosso. È stato molto commovente e non lo dimenticherò mai.
Quando si allestisce una mostra di questo tipo che introduce un tocco contemporaneo in un palazzo storico, diventa un lavoro molto delicato specialmente se si affronta il tema del luogo e la sua negazione. Bisogna imparare a rispettare le curve e le idiosincrasie della struttura e anche celebrarle e credo che Barotto e Mannarino ci siano riuscite.” (Vittorio Calabrese)
ANDREA ISOLA:
Questo era l’obiettivo del format: raccontarvi i retroscena di allestimento, farvi capire il lavoro di cui necessita una progettazione ben fatta di una mostra e delle difficoltà annesse da affrontare.
Non sono situazioni che vi raccontano spesso, perché siamo sempre abituati a vedere solo il risultato finale.
Grazie Vittorio.
#appuntidiunexhibitdesigner
Foto copertina: Montse Zamorano
Foto mostra: courtesy of Vittorio Calabrese