Fino al 7 novembre 2021, la mostra “Donne, Messico e Libertà” racconta l’arte della fotografa friulana.
La mostra “Donne, Messico e rivoluzione” si apre con un ritratto di Tina Modotti (1896-1942) del suo ex mentore e partner Edward Weston, il noto fotografo americano.
È uno dei tanti scatti presenti in mostra perché la sua poliedricità, la sua bellezza, il suo impegno sociale l’hanno vista spesso dall’altro lato dell’obbiettivo.
Il suo lavoro e poi la sua memoria sono stati omaggiati da molti altri artisti, come Renato Guttuso, Pablo Picasso, Rafael Alberti e Pablo Neruda.
Un centinaio di foto a rappresentare una vita fatta di tante vite, di tanti luoghi, di tante connessioni.
Nata e cresciuta a Udine, tranne un breve periodo in Austria, riuscì a vivere il sogno americano lavorando prima come sartina e poi come attrice. Rimase sempre una migrante, cambiando spesso dimora, negli Stati Uniti poi in Messico, in Spagna, in Russia, sempre lontana dalla sua patria essendo invisa al regime fascista.
Nonostante la vita da esule strinse amicizie molto salde, come con Frida Kahlo e Diego Rivera che compaiono in numerosi suoi scatti.
Un’artista indomabile. Un animo sensibile a cui “sembra di non poter sopportare tanta bellezza”, per questo cercherà sempre di bilanciare vita e arte, amore e scambio intellettuale, estetica e lotta sociale. Lo farà nel tentativo di non lasciarsi sopraffare, di non sbagliare, di divorare la vita.
L’amore e l’arte. Gli amori e gli artisti. Non sono mai scissi. Tina e il marito Robo si ispirano a vicenda, per Weston è l’allieva ma anche la musa da immortale mentre recita e poi la protagonista di una serie di celebri nudi: “Tina sull’azotea”.
L’amore è sempre ispirazione artistica e impegno sociale come con il fotografo Xavier Guerrero e l’esule rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella, assassinato davanti ai suoi occhi. Lo immortalerà all’obitorio e verrà perseguitata per mesi temendo di impazzire.
L’ultimo compagno fu il fotografo Vittorio Vidali, un’unione nata “perché le circostanze delle loro vite erano le stesse”, l’uomo con cui tornò in Messico dove morì a soli 46 anni.
Si considerava “una fotografa e niente più” con la missione di realizzare “oneste foto senza distorsioni o manipolazione”. Tina ricercava per i suoi lavori l’imperfezione e la mancanza. Le piacevano i dettagli. Un orecchino, una tela, uno scorcio, dei fili elettrici.
L’estetica anni ’20 si concentra sulle mani ma lei non cede al surrealismo, ricerca la verità. Per lei sono le dita che reggono un giornale politico, sono le mani del burattinaio o quelle intrise di terra di un lavoratore.
Lo dimostra anche con il reportage di Tehuantepec dove vivono le donne dell’etnia matriarcale zapoteca.
Si concentra sui volti, sulle ceste, sugli utensili per immortalare quel folklore che aveva fatto suo anche Frida Kahlo.
Registra la vita cruda come nella foto “Per le strade di città del Messico” che ritrae un uomo a terra. Fotografa i lavoratori, le proteste di piazza, l’indigenza. Lei non ha dimenticato la fame patita, lotta per i più deboli, sui fronti di guerra ma anche nel quotidiano, come quando salva dal gelo un anziano accasciatosi per strada.
A un certo punto abbandonerà la fotografia, resistendo anche agli inviti di Gerda Taro e Robert Capa che provarono a farle cambierà idea in Spagna in mezzo a una guerra civile. La fotografia veloce da bollettino di guerra non fa per lei.
Per oltre un decennio fino alla morte farà altro, la traduttrice e l’attivista del Comintern, ma non scatterà più neppure una foto.