Il MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fino al 6 gennaio 2022, approfondisce la figura dei Gladiatori superando il mito e raccontando anche la dimensione umana dei combattenti.
Nell’immaginario collettivo la figura del Gladiatore rappresenta il guerriero ribelle, il legionario eroe, simbolo della forza, del coraggio e della lotta alla schiavitù. Queste virtù trovano una corrispondenza visiva nelle numerose serie televisive e pellicole cinematografiche che vanno dal famosissimo film Spartacus di Stanley Kubrick del 1960, con l’attore Kirk Douglas protagonista, fino ad arrivare a Il Gladiatore di Ridley Scott del 2000, con l’attore Russell Crowe nelle vesti del comandante Massimo Decimo Meridio. Un approccio meno romantico e basato su principi scientifici che unisce archeologia e tecnologia è quello proposto nella mostra con 160 reperti, dal titolo Gladiatori, allestita nella Sala della Meridiana del MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, fino al 6 gennaio 2022. L’esposizione racconta non solo il mito, ma anche la dimensione umana dei combattenti. Divisa in diverse sezioni, si procede con un viaggio a ritroso nel tempo per intraprendere il percorso di visita.
Ad accogliere i visitatori sono le origini legate alle esibizioni dei gladiatori, gare combattute in onore dei defunti. Le prime raffigurazioni a noi pervenute sono dipinte sulle pareti interne di alcune tombe della prima metà del IV secolo a.C. scoperte nella zona di Paestum, in Campania. Sono una testimonianza dell’influenza delle usanze greche da parte delle popolazioni osco-sannitiche: la Tomba 7/1972, presente in mostra, con cassa a copertura a doppio spiovente, proviene dalla Necropoli del Gaudo, vi è raffigurato il duello tra due guerrieri armati con scudi e lance. Entrambi presentano delle ferite e quello a sinistra indossa una corazza a tre dischi. Sullo sfondo una figura maschile barbuta con una corona rossa fra le mani è il giudice della competizione. Successivamente, i romani appresero la gladiatura come rituale funerario proprio dalla Campania.
La seconda sezione è incentrata sulla organizzazione che ruota intorno ai gladiatori. I combattimenti erano offerti gratuitamente da magistrati, definiti munera, cioè doni. Erano una manifestazione di forza, di disciplina, di abilità tecnica e di coraggio, e generarono un notevole entusiasmo del pubblico. Si diffusero in tutte le città del mondo romano, divenendo uno strumento di propaganda politico-elettorale, al punto che una legge vietò ai candidati di pianificare spettacoli due anni prima delle elezioni. Nell’età imperiale furono offerti dall’imperatore che istituì un vero e proprio organigramma formato da funzionari amministrativi e tecnici, personale adibito alla scelta dei costumi dei gladiatori e responsabili dei macchinari e delle coreografie. Nelle varie città, la classe dirigente offriva i munera per la salute dell’imperatore, per la morte di un loro parente o per l’inaugurazione di un’opera pubblica.
Le giornate degli spettacoli erano molto lunghe. Si iniziava la sera prima con l’élite (l’editor) che offriva ai combattenti una cena aperta al pubblico, in cui si valutavano le loro condizioni fisiche e si programmavano le scommesse. Il giorno dopo, la prassi prevedeva una processione solenne del magistrato, a cui seguivano le cacce degli animali e l’esecuzione dei condannati ad bestias. Verso mezzogiorno vi erano attività di intrattenimento con rievocazioni di miti, leggende ed eventi storici. Nel pomeriggio i duelli erano preceduti dalla verifica delle armi e da una fase di riscaldamento con oggetti non affilati o di legno, durante la quale gli appassionati potevano entrare nell’arena per mostrare le proprie capacità. Ad accompagnare queste manifestazioni vi erano delle performance musicali con corne, tube, litui e organi idraulici, tra cui delle tibie doppie del I secolo d.C. presenti in mostra.
All’interno dell’anfiteatro vi erano più sfide contemporaneamente, con degli arbitri che monitoravano il rispetto delle regole. Quando un gladiatore era sconfitto, chiedeva la grazia all’editor munerarius sollevando la mano sinistra. Se la sua vita era salva, gli spettatori gridavano la parola missum (libero), in caso contrario, urlavano iugula (sgozza). Il pubblico poteva chiedere anche la grazia per entrambi i lottatori, contestando la scelta dell’editor, condizionandone le decisioni. A conclusione della gara, inservienti vestiti da Caronte o da Mercurio portavano via i corpi dei morti e ai vincitori venivano concessi la palma della vittoria, premi in denaro e oggetti preziosi.
La terza sezione del percorso espositivo è dedicata alle Venationes, agli spettacoli con gli animali, di cui è presente un rilievo, copia moderna da originale del I secolo d.C., con scena di venatio con leone e orso, caratterizzato da tre venatores muniti di elmi, scudi e spade che si difendono dall’assalto delle fiere. Vi erano diverse tipologie di combattimenti: si passava dagli animali esotici a quelli addomesticati, dalle cacce di uomini armati contro le fiere, agli scontri tra le stesse belve, fino alle condanne a morte ad bestias. Le prime manifestazioni nacquero nel 186 a.C., quando Marco Fulvio Nobiliore per celebrare il trionfo in Etiopia organizzò nel circo uno spettacolo con leoni e pantere. Successivamente, nel 46 a.C. Giulio Cesare offrì intrattenimenti che durarono cinque giorni, dove si esibirono 40 elefanti e 400 leoni. Per l’inaugurazione del Colosseo, con l’imperatore Tito si arrivò a cento giorni di manifestazioni, nella quale morirono 9000 animali. Accanto alle venationes, ci furono inutili massacri. Un esempio furono le cacce dell’imperatore Commodo, che protetto da una grata, scoccava frecce con l’obiettivo di uccidere gli animali nell’arena. Si allestivano delle scenografie con ricostruzioni di foreste, laghi e quadri viventi di argomento storico o mitologico, utilizzate per ambientare le esecuzioni capitali di disertori, prigionieri di guerra e criminali che venivano sbranati dalle fiere. L’ultima venatio si svolse sotto Teodorico nel 523 d.C.
La quarta sezione è incentrata su tutto ciò che ruotava intorno alla preparazione fisica del gladiatore. L’allenamento si svolgeva presso la familia (appartenenza ad una palestra), affidata al lanista, un impresario che sosteneva le spese per il mantenimento dei lottatori proprietari di personaggi facoltosi. Famosi sono i 5000 Iuliani che si allenavano nella schola a Capua. Ai lanisti si dovevano rivolgere tutti quelli che dovevano organizzare un munus (dono), e fissavano il prezzo per l’affitto dei gladiatori in base alla bravura di ognuno. Gli allenatori erano i doctores, maestri d’armi, specializzati nell’addestramento di una sola categoria. Poi vi erano il primus e il secundus palus, assistiti dai rudiarii, dai veterani che avevano meritato il rudis, la spada di legno che sanciva il congedo dall’agonismo. E dalla Caserma dei Gladiatori di Pompei, dove si allenavano i combattenti, proviene il ceppo fissato al pavimento per incatenarvi i lottatori in punizione, risalente al I secolo d.C..
La quinta sezione è, invece, dedicata all’alimentazione, ed offre interessanti spunti di riflessione sulla rigida dieta a cui erano soggetti, di cui fanno una descrizione dettagliata Plinio il Vecchio e Galeno di Pergamo. Zuppe di cereali, orzo, legumi, miglio e grano sostituivano le proteine animali. Tutte pietanze che dovevano conferire al corpo uno strato di grasso affinchè proteggesse le parti vitali inferte dai colpi. A questa dieta si aggiungeva un tonico a base di cenere e ossa che doveva fornire un apporto di calcio per rinforzare le zone di particolare stress.
Probabilmente è la parte del percorso epositivo dove i visitatori si soffermano con particolare interesse, quella relativa alle armature, che si differenziavano per specializzazione e categorie: il Trace, il Mirmillone e L’Hoplomacus. All’interno delle teche di vetro sono visibili gli elmi, gli scudi, le spade e gli schinieri dei combattenti. Il Trace aveva un elmo di tipo attico, con cresta a forma di grifo, due alti schinieri che coprivano per intero le gambe, una manica al braccio destro e un piccolo scudo rettangolare o circolare (parma). La sua arma caratteristica è una breve spada ricurva (sica). La forma a gancio amplificava l’effetto dei suoi attacchi dall’alto e di lato contro il Myrmillo.
Il Mirmillone indossava un elmo con la cresta per il cimiero e un’ampia tesa, la manica al braccio destro e uno schiniere basso alla gamba sinistra: si difendeva con un lungo scudo rettangolare e come arma aveva il gladio: combatteva contro il Trace e l’Hoplomachus. Molto probabilmente la loro armatura era di origine gallica. L’Hoplomachus aveva un apparato simile al Mirmillone.
L’elmo ovoidale, privo di tesa sporgente e di cimiero, è il mezzo di difesa di tre classi di gladiatori: i Provocatori, gli Inseguitori e i Controreziari che dovevano evitare di rimanere intrappolati nella rete del loro avversario, il Reziario. Essi avevano un lungo scudo rettangolare, uno schiniere basso alla gamba sinistra, la manica al braccio destro e, come arma, il gladio. L’elmo del Provocator aveva tutta la superficie della calotta impreziosita da bassorilievi.
Per accrescere la tensione e l’interesse del pubblico sui due contendenti, solitamente i gladiatori non erano armati alla pari. Il contrasto maggiore era tra il Retiarius e il Secutor. Il primo si proteggeva con il galerus all’altezza del collo. Questa lamina metallica serviva a parare i colpi dell’avversario. Il Secutor, invece, era coperto nella parte sinistra del corpo fin sotto il ginocchio da un breve schiniere e sopra da un grande scudo rettangolare, mentre una manica gli copriva il braccio destro e il capo era coperto dall’elmo globulare, privo di cresta, in modo da non offrire appigli alla rete.
Dal contenuto al contenitore, dal gladiatore all’anfiteatro. E’ la parte dell’exihibit dedicata alle arene che ospitavano gli spettacoli. Costruite verso la fine del II secolo a.C., la loro origine deriva dalle prime strutture in legno nate a Roma, oppure edificate in prossimità delle mura urbiche, sfruttando pendii naturali o un terrapieno artificiale sul quale poggiare la cavea. Nella città di Capua nella quale si esibirono Spartaco e i compagni che parteciparono alla rivolta del 73 d.C., fu costruito un nuovo anfiteatro senza sotterranei, del tipo a cavea su cassoni a compartimenti, che venne abbattuto per fare posto ad un altro in età imperiale, secondo per dimensioni solo al Colosseo.
La disposizione dei posti rifletteva la struttura della società: all’imperatore con la corte era riservata una tribuna con la visuale privilegiata. Senatori, cavalieri e magistrati, personaggi di rango e le Vestali occupavano i posti più bassi. I cittadini semplici sedevano nei posti dei settori più in alto e l’ultimo livello, con sedili in legno, era riservato alle donne.
Durante le cacce gli spettatori erano protetti da reti e palizzate aggiunte al muro del podio che delimitava l’arena nella quale gli animali venivano introdotti attraverso appositi corridoi, dotati di aperture controllate con sbarre o tavolati e, in alcuni casi, vi arrivavano con montacarichi e ascensori. Per comprendere il progetto e le dimensioni di questi edifici, sono esposti diverse riproduzioni in scala. L’Anfiteatro campano di Capua era situato nella zona periferica della città, ed era strettamente connesso alla via Appia per favorire il traffico legato allo svolgimento dei ludi. Questa struttura sostituì l’arena tardo-repubblicana, famosa per la scuola gladiatoria di Lentulo Batiato. La sua mole si elevava al centro dell’originaria platea lastricata in travertino e delimitata da cippi, uno dei quali decorato con le immagini di Ercole e Silvano. Si sviluppava su quattro piani di cui restano solo due: i primi tre costituiti da arcate inquadrate da semicolonne dorico-tuscaniche, l’ultimo in opera laterizia, scandito da finestre e lesene, presentava mensoloni che reggevano i pali del velario. Busti di divinità sulle 80 arcate del primo portico sostituivano la semplice numerazione e rappresentavano un motivo iconografico unico nel genere: di questi restano in situ Diana e Giunone. L’apparato decorativo di età adrianea è di particolare pregio, ne sono un esempio le statue incorniciate tra le arcate del secondo e del terzo ordine, e i bassorilievi marmorei che decoravano gli accessi alla cavea (vomitoria) con raffigurazioni mitologiche, combattimenti tra animali e scene di vita nell’anfiteatro. La gradinata divisa in settori (maeniana), culminava con un porticus adornato con colonne corinzie e statue. L’alto podio con balteus marmoreo, presentava al centro dell’asse minore le tribune d’onore (pulvinaria), poste su ambienti aperti verso l’arena, di questi si conservano quelli del lato ovest, decorati con pitture parietali.
Accanto all’edificio campano di Capua, vi è il plastico in sughero e legno relativo all’anfiteatro di Pompei, realizzato nel XIX secolo. Nel 70 a.C., i duoviri Quinctius Valgus e M. Porcius costruirono quest’opera architettonica per i coloni che dall’80 a.C. abitavano nella città. La cavea è in parte addossata al terrapieno delle mura e al terreno riportato dallo scavo dell’arena, contraffortato da una serie di arcate cieche. Quattro più ampie volte danno accesso alle gallerie che portano ai corridoi dai quali si raggiungevano le scalette per il primo e per il secondo settore, mentre il piano superiore era raggiungibile dalle rampe esterne. I diversi livelli erano protetti da parapetti in pietra o in muratura, e nell’età augustea vennero articolati in settori a cuneo scanditi da scalette radiali, realizzate a spese dei magistrati locali, i cui nomi furono incisi sul bordo del muro che divideva l’arena dalle gradinate. Gli spettatori venivano protetti dal sole o dalla pioggia da teloni (vela o velarium) appositamente tirati sulla cavea.
Il perimetro dell’arena era dipinto ad affresco con scene richiamanti gli spettacoli gladiatori e le cacce tra gli animali, alternate a serie di pannelli a finto marmo e a squame, visibili in mostra nelle riproduzioni realizzate dal disegnatore Francesco Morelli, tra 1816-1818, in dieci tavole a tempera, grazie alle quali si conserva l’immagine di quelle pitture crollate tre anni dopo quella scoperta, a causa di una gelata nel febbraio del 1816.
A testimoniare un evento storico che non riguarda le esibizioni, bensì una rissa all’esterno dell’anfiteatro, è l’affresco proveniente da Pompei che raffigura lo scontro tra la popolazione locale e nucerini, datato 59-79 d.C..
A chiudere la parte relativa alle strutture che ospitavano gli spettacoli è la ricostruzione in scala del Colosseo. Dove Nerone aveva costruito lo stagno della Domus Area, i Flavi con una operazione demagogica di restituzione al pubblico, realizzarono il più grande anfiteatro dell’antichità. Alto 48 metri e 50 cm, copre uno spazio pari a 3 ettari e mezzo. La costruzione dell’edificio, nella valle compresa tra i colli Oppio, Celio e l’altura della Velia, rientrava nel progetto urbanistico avviato da Vespasiano e poi completato dai figli Tito e Domiziano tra il 69 e il 79 d.C. con il bottino sottratto alla conquista di Gerusalemme. A Domiziano si devono anche la costruzione delle strutture di servizio, tra cui le quattro caserme (ludi) per l’allenamento dei gladiatori e i Castra Misenatium per i marinai preposti alla manovra del velum.
Innovativo fu il progetto architettonico, punto di arrivo di una complessa evoluzione strutturale, e il funzionamento complessivo del monumento: è composto da 80 arcate impostate su pilastri con semicolonne coronate da capitelli di ordine tuscanico, ionico e corinzio. All’interno la cavea, ovvero l’insieme delle gradinate, è organizzata in cinque settori orizzontali (maeniana) di posti (loca): alla base quelli destinati ai senatori, che sedevano sui gradini di marmo, nel punto più alto quelli di legno destinati alla plebe. Gli spettatori potevano essere tra i 40 e i 70 mila, ed entravano gratuitamente, muniti di una tessera per l’individuazione del proprio posto. Alla base della cavea si trovava il piano dell’arena. L’Anfiteatro e i suoi sotterranei furono costantemente restaurati nel corso dei secoli a causa di numerosi incendi, il più devastante quello del 217 d.C., oltre ad un terremoto nel 1349. Dopo la fine del suo uso nel 523 d.C., la struttura fu utilizzata come abitazione, stalle, strade, chiese, opere difensive e persino ospedale, i materiali vennero utilizzati per la realizzazione di altre opere urbane. Nel X secolo le fonti tramandano per la prima volta il nome di Coliseum, dalla statua bronzea, Colosseo, che si ergeva all’esterno dell’anfiteatro. Una testimonianza proveniente da Roma è il tripode di marmo III secolo d.C. visibile in mostra.
L’enorme popolarità degli spettacoli è provata dai numerosi oggetti decorati con temi relativi a questo mondo trovati in tutti i centri del mondo romanizzato, visibili nella sesta sezione. Vetri, ceramiche da tavola, manici di coltello, lucerne, statuette in bronzo e in terracotta, si aggiungono agli affreschi e ai mosaici che a Roma, nelle province e soprattutto nel nord Africa riproducono, tra il II e IV secolo d.C., i vari momenti delle lotte, sempre diverse l’una dall’altra: un esempio è il gladiatore che combatte contro il proprio fallo trasformato in pantera, Tintinnabulum in bronzo, I secolo d.C., collocato in una teca di vetro.
Una particolare attenzione merita il mosaico di Augusta Raurica. Nel 1961 nel cantone di Basilea, in Svizzera, venne scoperto una sala da banchetto di 6,55 m x 9,80 m con pavimento a mosaico risalente alla fine del II secolo d.C.. Si nota in quest’opera la complessità del disegno e la varietà dei colori delle tessere in pietra, marmo, vetro e terracotta. Una larga cornice di doppi meandri e quadrati circonda un tappeto rettangolare nel cui centro è raffigurata la vasca di una fontana nella quale nuotano i pesci, alimentata dall’acqua che zampilla da un cratere. Nei quadrati (originariamente sei) sono riprodotti duelli tra gladiatori appartenenti a categorie diverse, tranne nel caso dei due in tunica. I particolari delle armature rendono riconoscibili i combattenti: lo scontro tra il Retiarius e il Secutor, tra il Thraex e il Myrmillo, e tra l’Oplomachus e il Myrmillo. Una soglia a girali separa la parte figurata da una zona a semplici rettangoli delineati in nero.
Una particolare attenzione nel percorso espositivo è rivolta alla descrizione degli uomini che diventarono gladiatori. Essi provenivano dalle diverse province dell’impero, potevano essere prigionieri di guerra, schiavi destinati a tali spettacoli, criminali condannati a morte da inviare disarmati nell’arena, liberti, ma anche uomini liberi che volontariamente si sottomettevano al lanista. Se il nome di tali combattenti, conservato dalle iscrizioni su pietra e dai graffiti è ridotto al solo cognome, significava che si trattava di uno schiavo, venduto dal padrone al lanista, o condannato a quel mestiere per scontare una pena. Alcuni liberti avevano un prenome e il gentilizio imperiale. Altri avevano nomi di battaglia che richiamavano le qualità fisiche come Leo, Tigri, Ferox e Invictus, molti erano quelli che si ispiravano a figure mitologiche, Castor, Bebryx, Diomedes e Hercules, oppure al nome di qualche gladiatore famoso, Columbus o Triumphus.
Questi individui venivano reclutati intorno ai 17-18 anni, vivevano fino a 30 anni e combattevano non più di due volte l’anno. Pochi erano coloro che potevano vantare più di 20 vittorie, come Massimo, del ludus di Capua, che conquistò 36 corone, o Fiamma che morì dopo 34 vittorie, e Generoso che arrivò a 27.
Alcuni riuscivano ad avere una famiglia, e in caso di morte, provvedevano alla sepoltura le mogli. Più spesso, come capitava per i soldati, erano gli amici e colleghi che si occupavano del suo funerale e dell’epitaffio, dove vi si incideva il nome, la categoria di appartenenza, la patria, il numero degli incontri sostenuti e gli anni di vita. Un esempio è la stele funeraria di Peneleos del III secolo d.C..
La mostra si chiude con una affascinante riflessione, tra ipotesi e certezze, sulla antica cittadina di Ebocarum, l’odierna York, nel nord dell’Inghilterra, fondata dalla Legio IX Hispana che stabilì una fortezza nella seconda metà del I secolo d.C.. Fiorente metropoli, attirò persone da tutto l’impero e anche tre imperatori: Settimio Severo nel 208 d.C. fino alla morte nel 211 d.C., Costanzo Cloro vi morì nel 306 d.C. e suo figlio Costantino, che fu proclamato imperatore proprio nella città britannica.
Nel 2004/5, su una altura gli archeologi scoprirono i resti di 83 inumazioni, tutte tranne una, riferibili ad individui di sesso maschile. Gli scheletri erano di costituzione robusta, di altezza superiore alla media e con molti segni di violenza interpersonale come fratture guarite, colpi al viso e al cranio. Quarantuno corpi mostravano segni di un taglio sulla colonna vertebrale, di questi almeno 39 erano stati decapitati con un colpo inferto da dietro, come per una esecuzione. Alcuni scheletri erano stati deposti insieme in un’unica tomba, altri in posizioni insolite, inoltre furono rinvenute anche ossa di cavallo. L’analisi isotopica e del DNA ha dimostrato che molti individui provenivano da parti diverso dell’impero. Due sepolture si sono rivelate particolarmente interessanti: una ha restituito uno scheletro con dei segni di morso sul bacino attribuibili ad un grande felino; l’altro, invece, era stato sepolto in catene. Attraverso la tecnologia è stato possibile ricostruire il volto di uno dei due defunti.
Proprio da York proviene una insolita doppia sepoltura. E’ una delle cinque scoperte durante gli scavi nei settori 3 e 6 di Driffield Terrace (York). E’ databile tra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C.. Gli individui sepolti sono entrambi di sesso maschile, di cui uno di 20-30 anni e il secondo di 36-45. Non si evidenziano rapporti di parentela tra i due, provenivano da parti diverse dell’impero. L’uomo più anziano fu sepolto per primo, con i piedi all’estremità sud-ovest della tomba. Il più giovane fu sepolto in un secondo momento, adagiato sopra di lui, con i piedi in direzione opposta. Entrambi erano stati decapitati. L’analisi degli scheletri ha rivelato che i loro teschi erano stati scambiati: la testa del giovane era stata posta in relazione allo scheletro del più anziano, mentre il cranio di quest’ultimo era posto ai piedi dell’individuo più giovane. Non è chiaro se questo atto sia stato intenzionale o il risultato di un errore.
A conclusione del percorso espositivo, potrebbe essere definita la settima sezione della mostra la parte relativa alla Gladiatorimania, un itinerario off, che, prima o dopo aver visitato l’allestimento nel Salone della Meridiana, permette di raccontare i Gladiatori anche grazie alle più innovative tecnologie della comunicazione.