Fino al 18 luglio presso la galleria Cardelli & Fontana a Sarzana sarà visibile la mostra Rupe dell’artista Fabrizio Prevedello, curata da Saverio Verini. Una mostra polimaterica, tattile, in cui il marmo crea piccole insenature dove rifugiarsi e attendere tempi migliori.
Credo che spesso, anzi forse inevitabilmente, lo studio di un artista rispecchi e rispetti la sua pratica, la sua poetica, il suo rapporto con la materia trattata. Come ogni abitazione è un ritratto, più o meno fedele, di chi la abita. Si creano corrispondenze che aiutano a tracciare la fisionomia di una ricerca o almeno ad individuare alcuni indizi utili per la ricomposizione della storia. Quando, ormai qualche anno fa, sono andato a trovare Fabrizio Prevedello nel suo studio ai piedi delle Alpi Apuane ho trovato un ambiente estremamente ordinato, in cui ogni strumento occupava uno spazio circoscritto e definito, una pulizia fisica e mentale che sembrava non lasciare spazio a nessun tipo di sbavatura. Una sorta di studio chirurgico in cui Fabrizio si aggirava senza assistenti perché in grado di assolvere autonomamente a qualunque fase dell’operazione. E i suoi pazienti, se così li possiamo definire, sono oggetti, materia che spesso proviene da quei monti che lo osservano lavorare, dalle Alpi Apuane che Fabrizio frequenta in veste di esploratore solitario e metodico. Le sue sculture sono composizioni e assemblaggi di marmi, sassi, residui inutilizzati e inutilizzabili di quelle cave che rimodellano il paesaggio montano. Sono oggetti di piccole dimensioni, trasportabili dalle braccia di un uomo, sono frammenti della natura che vengono avvicinati ad elementi artificiali come cemento armato, pezzi di metallo, infissi, ecc.
Perché Prevedello raccoglie nel suo studio tutto quello che ha bisogno di cura, quello scarto che può essere avvicinato per creare una nuova forma. Nella scultura di Prevedello la natura, o meglio i frammenti che la ricordano, viene sorretta e intervallata da corpi artificiali, sporgenze metalliche che però non inficiano la regalità del marmo o la stratificazione della pietra. Diventano luoghi identitari, oggetti che si aiutano, che Prevedello affianca perché non possano più cadere, perché non possano più essere considerati scarti. Nella mostra Rupe curata da Saverio Verini presso la galleria Cardelli & Fontana di Sarzana e visitabile fino al 18 luglio, vengono raccolte tredici sculture che raccontano questo processo di cura e conservazione. Le pareti sono ricoperte da un cartone per imballaggio, una superficie grigia con sottili scanalature verticali. In questo modo l’ambiente risulta silenzioso, protetto, insensibile agli urti provenienti dall’esterno.
L’allestimento mi rimanda al suo studio, all’idea di una piattaforma estraibile, forse portatile che, pur aderente ad un territorio, si può alzare e affrancarsi dal circostante. Un processo non dissimile dal suo fare scultura, infatti molte delle opere esposte hanno come titolo Luogo e sono caratterizzate da una superficie che nasconde un incavo, una piccola grotta, una insenatura che rimanda all’idea di rifugio. Uno spazio che l’osservatore deve cercare muovendosi intorno alla scultura aggrappata saldamente alla parete.
Lo stesso Luogo/rifugio che hanno trovato tutti quei residui che Fabrizio ha scovato, recuperato e portato nel suo laboratorio, nel suo studio. Un rifugio che accoglie un’identità meticcia, come scrive Saverio Verini nel testo che accompagna la mostra ognuno degli elementi da lui utilizzati concorre alla creazione di una costellazione di opere contraddistinte da alcune costanti formali e poetiche: penso, per esempio, alla sensazione di essere di fronte a qualcosa che ci sovrasta e che, contemporaneamente, ci accoglie; alla capacità di tenere insieme forme appuntite, spigolose, verticali, e altre più marcatamente concave, curvilinee, dolci: al modo di “colorare” le sculture semplicemente grazie agli accostamenti e alle proprietà cromatiche dei materiali; al ricorso a formati per lo più raccolti, non muscolari, senza che questo impedisca di pensare di avere davanti qualcosa di imponente.
Sulla parete di fronte alla porta d’ingresso campeggia Tempi, un’opera in cui due lamine in metallo sostengono altrettanti “fogli” di marmo come se, questi ultimi, fossero paesaggi bloccati nella loro sospensione estatica. Ma percorrendo la sala e avvicinandosi all’opera si iniziano ad individuare le prime faglie, il metallo apparentemente intonso evidenzia delle ferite, delle cicatrici rimarginate. I corpi verticali non sono altro che pezzi di infissi, di zanzariere abbandonate chissà dove che lasciano intravvedere, senza alcuna vergogna, il loro essere protesi artigianali, imperfette. E il marmo, a sua volta, mostra i segni della lama che ha percorso il suo corpo separandolo dalla montagna. Materiali distanti, scarti che si sorreggono a vicenda evitando una caduta rovinosa e fatale, corpi che restano attaccati alla parete. La fine dell’oblio.