Forse non mi piaci tu adesso e non mi piace dove sei ora. Pensare che non solo tu leggerai queste righe mi inquieta.
Caro Amico,
non mi piacciono queste lettere. Non mi piace leggerle e non mi piace scriverti, considerato che maneggi la penna meglio di me e lo fai in modo da indurmi a risponderti subito.
Non ne ho mai scritta una così, da qui a lì.
Laggiù dove stai ora, ti penso sdraiato all’ombra di una grata. In attesa.
Non mi piace neanche rileggere quello che scrivo. Forse non mi piaci tu adesso e non mi piace dove sei ora. Pensare che non solo tu leggerai queste righe mi inquieta. Vorrei non doverlo fare, ma te lo devo, per la stima, l’affetto, l’empatia. E per farti risentire l’emozione vitale. Come amico ti sono, e lo sarò sempre, debitore.
Ti mando la tuta Nike e le calze bianche, anche qualche libro perché ti sia di ispirazione e non ti faccia scordare l’amore per le cose vere. Non pensare ai draghi, a chi è nato sotto quel segno infimo.
Mentre ti scrivo, seduto al tavolino di un caffè sotto casa, la televisione all’interno diffonde il video di una giraffa scappata dal circo di quei deficienti che usano ancora gli animali in cattività per fare spettacolo. Sta correndo libera tra le vie calde di Imola, città a te poco nota suppongo, ma ti assicuro, dalle immagini che passano, di piazze asfaltate, di strade, di parcheggi, di parchi circondati dalle ringhiere, è pur sempre la stessa babele che ben conosciamo. Milano non è così diversa.
Diversamente dagli uomini, è innata negli animali l’arte di lasciare illeso il paesaggio in cui vivono.
Sei tu la giraffa. E noi fuori da te siamo questa città traditrice, un paesaggio predeterminato. Un sistema di confini: muri, sbarre, reti, porte, percorsi obbligati, divise, gesti rituali e sequenze prestabilite (come diceva A. M.).
Noi siamo questa città sporca e fatta di colla, truccata come il volto di un pagliaccio, piena di sbirri e controllori, giudici e arbitri che, nascosti dalle loro maschere, son pronti ad abbassarti lo sguardo se punti oltre il loro orizzonte.
(Sì, spero lo leggiate, perché leggere la posta degli altri è il gesto più disaggradevole che un uomo possa compiere. Non c’è niente di più infame che negare la dignità a un altro uomo in un modo così tristo e maligno).
Ti vedo fra quelle quattro mura, fatte di quattro pietre, dietro quattro sbarre, insieme a tre poveri incolti. Che questo intervallo ti scorra fluido amico mio; mi raccomando, tieni tre occhi aperti. È insopportabile immaginare quanto possano essere fredde e strette le giornate passate in tale compagnia. È davvero così difficile riuscire a trovare qualcuno da cui imparare qualcosa lì? Certo, non sarà facile incontrare altre persone come te laggiù.
Magari puoi insegnare loro a provarci, anche se sarà un’impresa difficile riuscire ad arrivare fin sotto la loro pelle, nei muscoli e nelle terminazioni nervose. Esseri non soggetti alle regole in fondo ci si nasce. E ne nascono pochi, come gli eroi. Pochi eroi le cui madri meriterebbero una statua.
Mi vergogno per te di saperti lì. Non capisco che utilità possa esserci per la società nel tenerti chiuso, stretto e senza tempo. Non mi vergogno di te per quello che hai fatto, ma per dove sei finito. Anche se entrambi sappiamo che non ti accuserei mai di essere stato sbagliato. Temo però la tua trasformazione.
Ma chi è lo scellerato che ha inventato queste leggi? Leggi che puniscono chi non fa del male a nessuno. L’erba colora e profuma la giornata del girovago. Non si può trattare così una pianta e privarla della possibilità di spargere semi e pollini nei prati. I am ashamed the law is such an ass. (G. C.).
Sì, mi vergogno per te, ma ancor più dell’essere umano che ha creato le scatole nelle quali potremmo finire come la giraffa di Imola, senza colpa, perché non sarà stata certo lei ad allentare il nodo o a girare la chiave del cancello: ha semplicemente fruito dell’unica possibilità a lei concessa dall’ordinatore del mondo. Possibilità che mai avrebbe potuto determinarsi da sola. Alla fine, la giraffa muore per un’overdose di farmaci sparati dall’uomo con l’intento di calmarla. Poverina.
Se invece di costruire distruggessimo, saremmo ora entusiasti della distruzione e godremmo nel vederla. Ma noi stiamo costruendo il futuro. Un futuro che nemmeno ci spetta, e che non vorremmo certo concepito in questo modo.
Sarà vero quello che scrivi? Siamo solo autori del nostro tempo? Come quelli che nei secoli hanno rimarcato le catastrofi dei tempi loro portando sempre le prove del decadimento? Siamo solo parte di un guaito perpetuo?
Proprio ieri, mentre meditavo di risponderti, il mio sguardo è caduto su uno dei libri di V. M. tra quelli che mia madre ha lasciato. Al suo interno, oltre a una foglia di Posidonia usata come segnalibro, c’erano alcune sottolineature a matita, righe spesse tracciate in modo brutale come era solita fare lei. Evidenziavano un breve testo scritto come una poesia che qui ti riporto, perché il libro che era di mia madre non vorrei inviartelo:
A chi parlerò oggi?
I fratelli sono cattivi,
gli amici di oggi non possono essere amati.
A chi parlerò oggi?
I cuori sono rapaci,
ognuno prende i beni del compagno.
A chi parlerò oggi?
La gentilezza è perita,
la violenza si abbatte su ognuno.
A chi parlerò oggi?
Si è soddisfatti del male,
il bene è buttato a terra ovunque.
[…]
A chi parlerò oggi?
Non ci sono più giusti,
la terra è abbandonata agli iniqui.
È tratto dal Dialogo di un disperato con la sua anima, un testo dell’antico Egitto di circa 2100 anni prima di Cristo.
Non c’è quindi epoca in cui non sia pressante la preoccupazione, come sottolineava nel libro mia madre, di come tenere insieme le libertà del singolo (A chi parlerò oggi?) con la logica del mondo. E che le cose che ci tengono insieme in quanto libertà sono inevitabilmente da sempre in un equilibrio precario che va di continuo sottoposto a revisione, accertamento, negoziazione.
Quando riceverai il pacco, leggi per primo Dateci di P. L., ho controllato esserci in uno dei libri che ti mando. Commiserateci.
Se puoi, parla ancora al direttore, cercalo, negozia. Perché, in effetti, che ti abbia letto e voluto incontrare gioca a tuo favore. Potrebbe voler ricevere da te parole dolci come quelle che scrivi, o semplicemente avere un demone con cui conversare per non morire d’insipienza.
Casa di pena
Caro amico
fa che ti lucidi le scarpe.
E lo farò così bene
che mi chiederai di farlo con la tua casa.
Poi di portare libero il tuo cane.
Poi la tua persona.
E uscirai di qui.
Lo sappiamo entrambi, la nausea dell’abbandono è una corda che non perde la sua elasticità e la sua resistenza nel tempo, anche quando il tempo è poco.
Q. e J. stanno bene. Q. mangia e dorme regolarmente, ma ha sempre un’espressione che a guardarla (ed è impossibile non farlo visto che mi segue a ogni passo) sembra domandarsi di continuo: Perché? Dove è? Quando? Cosa ho fatto?
In lei è la lacuna maggiore, il vuoto più profondo che hai lasciato. Perché io e te ci rivedremo ancora qui sicuramente, anche se non sappiamo tra quanti anni. Altrettanto sicuramente voi due non vi vedrete più. E dal suo giaciglio, rannicchiata fra la paglia, sembra saperlo benissimo.
È di certo la compagna più fedele che tu abbia mai avuto.
J. invece torna solo a mangiare. Passa tutte le notti fuori nei campi, ma riappare sempre sporca di fango a dare un bacio a Q. per svegliarla la mattina presto. E poi chissà cosa le racconta, perché dopo essersi svegliata Q. riesce a non pensarti per un paio d’ore. Per poi tornare a mostrarci che si può morir d’amor.
Così, da questo caffè sotto casa mia, guardando una rotonda con al centro alcune panchine piene di ragazzi che si preparano alla festa, fino a lì, Bergamo, dove ti trovi (o dove mi hanno detto di indirizzare questa lettera), ti mando una donizettiana furtiva lacrima.
Non verrò a trovarti, però tu scrivimi sempre e chiedi ciò che vuoi, mentre noi attenderemo con te di sapere quando potrai uscire. Buona fortuna per il processo, sarebbe inutile sperare nella giustizia, ma non nella ventura.
Un artista deve avere affinità con la galera, ma anche con il continuo tentativo di non finirci mai.
Bazzicando inconsapevolmente la civiltà.
G. S.