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Giancarlo Politi: odi, poesie, Arturo Schwarz, Massimo Minini e Matteo Salvini

Amarcord 61 – Un nuovo appuntamento con la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi: Arrivederci a settembre?

Incontri con la Poesia

Elizabeth Alexander
(Harlem, New York, 1962)

Da American Sublime
(traduzione di Ludovica Zaccardi)

Ode

Adoro tutti i corpi delle madri su questa spiaggia,
I pancioni, i costumi da bagno interi,
I seni che scendono, i bei sederi si allargano,
La carne delle cosce strizzata, come il vento gentile ondula uno stagno.

Quanti tagli di capelli e code di cavallo sensati!
Questi corpi mostrano che hanno cresciuto dei bambini, poi li hanno nutriti,
si sono svegliati ai loro pianti, si sono preoccupati per le loro febbri. I bicipiti hanno sollevato e portato

I bambini ora stampati sulle loro madri.
“Se mettessi in fila cento vagine
Potrei dirvi quali hanno partorito”
Dice la levatrice. Nel luogo segreto o

alla luce del sole sulla spiaggia, i nostri corpi dicono
Questo è ciò che siamo, no, questo è ciò che
abbiamo fatto e continuiamo a fare.
Lavoriamo nell’amore. Lo facciamo. Siamo madri.

Wisława Szymborska
(Bnin, Polonia, 1923 – Cracovia 2012)

Innamorati

C’è un tale silenzio che udiamo
la canzone cantata ieri:
Tu andrai per il monte, e io per la valle… Udiamo – ma non ci crediamo.
Nel nostro sorriso non c’è pena,
e la bontà non è rinuncia.
E, più di quanto non meriti,
commiseriamo chi non ama.
Così stupiti di noi stessi, cos’altro ci può mai stupire? Né arcobaleno la notte.
Né farfalla sulla neve.
Ma addormentandoci
in sogno vediamo l’addio. Però è un buon sogno, però è un buon sogno, perché c’è il risveglio.

Nulla due volte

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tal ragione si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione. Anche agli alunni più ottusi della scuola del pianeta
di ripeter non è dato
le stagioni del passato.
Non c’è giorno che ritorni, non due notti uguali uguali
né due baci somiglianti,
né due sguardi tali e quali. Ieri, quando il tuo nome qualcuno ha pronunciato,
mi è parso che una rosa sbocciasse sul selciato.
Oggi, che stiamo insieme,
ho rivolto gli occhi altrove. Una rosa? Ma che cos’è? Forse pietra, o forse fiore? Perché tu, malvagia ora,
dài paura e incertezza?
Ci sei – perciò devi passare. Passerai – e qui sta la bellezza. Cercheremo un’armonia, sorridenti, fra le braccia, anche se siamo diversi
come due gocce d’acqua.

Cesare Pavese
(Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908 – Torino 1950)

E allora noi vili

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto-
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu più dolcezza,
non fu più abbandonarsi
sul sentiero del fiume-
non più servi, sapemmo
di essere soli e vivi.

13 novembre 1945

Jacques Prévert
(neuilly-sur-Seine, 1900 – Omonville-la-Petite, 1977)

Le belle famiglie

Luigi I
Luigi II
Luigi III
Luigi IV
Luigi V
Luigi VI
Luigi VII
Luigi VIII
Luigi IX
Luigi X (detto l’Attaccabrighe)
Luigi XI
Luigi XII
Luigi XIII
Luigi XIV
Luigi XV
Luigi XVI
Luigi XVIII
e più nessuno più niente…
Ma che gente è mai questa
che non ce l’ha fatta
a contare fino a venti?

Anonimo del XXI secolo

En attendent

Ma l’amore mio spera
e non si attenua ancora
e auspica l’errore
degli astri e degli dei.
Phoebe sogno mio.
Ma anche Ludwig
è sangue dell’Etrusco di Trevi
faccia da contadino e cervello duro
e presto sboccerà alla vita
e porterà sul volto e sui passi
le cadenze montanare
e pensieri eterni degli
ulivi sempreverdi.
Ma anche Tancredi di Antiochia
mi ferisce il cuore di gioia
o Manfredi di Svevia
un mio antico sogno normanno
di siciliano mancato
o Gillo come l’eterno Dorfles
e ora anche Liam e Philo?
Ma anima mia in arrivo,
e ancora senza nome
anzi, troppi nomi,
ma come potrò chiamarti
per gridarti il mio amore?
Bambino mio dai mille nomi
eppure ancora senza nome.
Zeno
Tiberio
Tancredi
Manfredi
Gian
Giò
Gillo
Liam
Philo
Nanni
Ludwig…..
Ma noi riusciremo a contare
sino a venti
caro Jacques Prévert

Federico Fontanella
(Venezia 1930 – Belluno 2021)

Ostarie sconte

Ostarie sconte
ostarie scure
la riva col ponte,
do veci sentai.
I beve adasieto
apena un gioseto
co i oci incantai
che varda lontan.
El tempo che passa
el passa …
più pian!

Anna Vasta
(Catania)

Noi figli della sabbia

Noi figli della sabbia
affidammo al mare
le nostre speranze
di sabbia
noi che del mare
avevamo paura
consegnammo i figli
a quell’infinità senza misura
noi senza una terra
senza un domani
ci siamo dati in pasto ai suoi
pescecani
meno feroci di quelli umani
Ora siamo al sicuro
in questi abissi dai vostri stolti
egoismi
ora lasciateci riposare perché
qui vogliamo restare
non fate la conta dei morti
per tacitare i vostri rimorsi
vivi ci avete lasciato
al nostro destino
ora ci ha accolto questo ventre
marino
come grembo di madre
Qui è la nostra pace.

30 maggio 2016

Arturo Schwarz

Ho frequentato a lungo Arturo Schwarz, negli anni ’60. Ci recavamo spesso a Parigi insieme, talvolta con Giorgio Marconi, a fare visita a Man Ray e successivamente alla sua vedova. Arturo era un uomo molto attento al denaro, direi quasi avaro, ma a Parigi mi invitava sempre generosamente alla Brasserie Lipp, in Boulevard Saint-Germain, proprio di fronte alla mitica libreria La Hune, dove con Helena trascorrevamo le giornate, e al bar Les Deux Magot, dove talvolta consumavo la mia brioche mattutina accanto a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir che osservavo religiosamente senza osare di rivolgere loro la parola. E loro in silenzio, senza guardarsi. Sembrava si fossero detti già tutto. Entrambi con la loro immancabile sigaretta, consumavano la colazione senza parlarsi né parlare con altri. Alteri, orgogliosi, intoccabili. E leggermente antipatici, ma io consideravo questa loro austerità un dono divino, non concesso agli altri mortali.

Arturo Schwarz con Marcel Duchamp nel 1964

Arturo Schwarz, nella mitica Brasserie Lipp, da solo o in compagnia, sedeva sempre allo stesso tavolo, il medesimo, lui sosteneva, di Marcel Duchamp. E da Lipp, Arturo ordinava sempre la famosa Remoulade, salsa aromatizzata in genere con crostacei, ideata da Leonard Lipp e sua moglie Petronilla, nel 1880, all’apertura del loro famoso ristorante.

Arturo Schwarz non era uomo facile. Carattere scontroso e altero, entrambi Acquari, eravamo uniti dalle nostre divergenze. Ma anche dalla nostra visionarietà. Sono stato un suo frequentatore abbastanza assiduo negli anni ’60 ma mai amico. Ricordo ancora che entravo nella sua galleria intimorito da una scritta: «Vietato Fumare. La galleria è munita di un sofisticato sistema di allarme che scatta all’accensione di una sigaretta». Pura fantasia naturalmente, perché all’epoca non esistevano tali meccanismi. Ma Arturo Schwarz amava intimorire i suoi interlocutori, i quali entravano e uscivano dalla galleria con la coda fra le gambe. Ma sempre soddisfatti dopo l’incontro.

E Arturo è stato uno dei primissimi galleristi, forse il primo, ad effettuare la pubblicità su Flash Art. Non ricordo però di aver mai ricevuto alcun pagamento da lui, forse un quadretto di qualche tardo surrealista. Ma, alle sue condizioni, era un fedele inserzionista della mia rivista, affamata di visibilità e di denaro e sempre (negli anni ’60) sull’orlo della chiusura. Realizzavo a fatica un numero per raccogliere denaro e pubblicare il successivo.

Un giorno Arturo, in vena di confidenze, mi mostrò i suoi piedi, quasi senza unghie. «Vedi», mi disse, «questi sono i postumi delle torture subite nella prigione di Hadra, in Egitto, per le mie idee politiche. Per questo sono venuto a Milano». La città l’accolse generosamente, concedendogli presto anche un fido bancario per aprire una libreria, la famosa Libreria Editrice Schwarz. Pare, così lui mi diceva, fosse perseguitato da Palmiro Togliatti, allora segretario del PCI, per le sue idee trozkiste. Non ho mai saputo se fosse vero. Magari fu inviso al segretario cittadino del PCI. Mi sembrerebbe strano che Togliatti, con tutti i suoi problemi, avesse il tempo di occuparsi di un oscuro esule ebreo trozkista, approdato a Milano. Ma ad Arturo piaceva far credere che fosse un eroe (e in qualche modo lo fu). Ma che fosse un intellettuale attento ai movimenti Dada e Surrealismo, nessun dubbio. Prese in mano le spoglie dei due movimenti e soprattutto prese per mano Marcel Duchamp, che riportò alla luce, rifacendone e commercializzandone, in modo molto abile, tutte le opere. Naturalmente con il consenso di Duchamp. Il quale Marcel, durante la sua vita, pur essendo un mito per uno sparuto gruppo di intellettuali, non riuscì mai a commercializzare le sue opere. Sopravviveva vendendo qualche opera di Brâncuși, di cui, pensate un po’, era il mercante.

Invece Arturo Schwarz, con le sue ampie relazioni e visionarietà ha riempito il mondo di multipli di Marcel Duchamp, dalla famosa Fontana del 1917 (l’orinatoio) alla Ruota di bicicletta (1913) allo Scolabottiglie (1914). Vedete un orinatoio con l’etichetta di Marcel Duchamp in qualche famoso museo del mondo? Ebbene, è stato realizzato da un artigiano di Milano su commissione dell’immaginifico Arturo Schwarz. Credo che Arturo Schwarz, grazie a Duchamp e ai dadaisti e surrealisti, sia diventato ricchissimo, ma non lo lasciava trapelare. Da quando l’ho conosciuto (1964) sino agli ultimi anni, stesso modo di vestire, di frequentare, di comportarsi. E senza darsi delle arie, anzi con umiltà assoluta, amava farti sentire un sottoposto.

Un giorno George Brecht, mentre ero suo ospite a Colonia, mi mostrò una ricevuta rilasciata da Arturo al termine della sua mostra, che lui, sempre, acquistava interamente, al prezzo da lui stabilito. Esempio: acquisto opere mostra intera 100.000. Meno spese segreteria per 30 giorni, meno spese della corrente elettrica per 30 giorni, meno costo dell’affitto della galleria per 30 giorni, meno costo per pulizie ecc. Totale per l’artista 10.000. Capito? Da un valore di 100 mila l’artista riceveva 10 mila. Ma li riceveva veramente. Erano tempi quelli in cui un gallerista si teneva sempre la mostra intera con pagamento a babbo morto. Ad un certo momento, dopo aver commercializzato in tutti i modi Marcel Duchamp e i dadaisti che possedeva, iniziò ad interessarsi dei Surrealisti e tardo-surrealisti. Di tutto il mondo. Iniziò a far man bassa in Israele, dove era emigrato Marcel Janco (che peraltro io visitai nel suo studio nel deserto insieme a Jean-Christophe Amman), di cui acquistò tutte le opere. Poi entrò in contatto con i Surrealisti di Polonia e della Repubblica Ceca. Il Surrealismo praghese fu particolarmente importante e lui vi entrò in contatto facendone man bassa tramite il nostro collaboratore Jindřich Chalupecký, grande esperto del Surrealismo ma anche profondo conoscitore di Marcel Duchamp. Dunque connubio perfetto. E Chalupecký, oltre che procurargli le opere, scrisse per lui alcuni testi. Un giorno, negli ultimi anni della sua vita e con la Repubblica Ceca ancora chiusa nella Cortina di Ferro, mi disse: «Giancarlo, puoi passare da Schwarz e farti dare quanto lui mi deve per le collaborazioni (circa 500 mila lire di allora) e comperarmi questo medicinale per il diabete che qui a Praga non si trova?» e mi consegnò la prescrizione medica e un biglietto per la richiesta ad Arturo. Il quale mi disse: «Ripassa domani perché debbo ritirare quanto gli debbo in banca». L’indomani passai e Arturo mi consegnò 950 mila lire. «Con gli interessi le sue 500 mila lire sono diventate 950 mila. E ringrazia per me Jindřich». Arturo Schwarz era un uomo molto avaro, ma onesto nelle sue promesse al ribasso come nessun altro che abbia conosciuto. E tutti gli artisti da me interpellati, da George Brecht appunto, a Jiří Kolář, Daniel Spoerri e tutti gli altri e che a fronte di una vendita di 100 mila ricevevano 10 mila, mi parlavano di Arturo Schwarz come di un mito e un benefattore. Arturo era così abile da derubare i suoi artisti ed apparire un grande benefattore. Con riconoscenza a vita.

Una sera ero alla cena che Daniel Spoerri aveva organizzato alla Multhipla (ancora non MuDiMa) di Gino Di Maggio: era la serata degli Acquari. Daniel organizzò cene per tutti i segni dello zodiaco: verso la fine della cena si alzava in piedi gridando «Stop!» e tutti dovevamo smettere di mangiare lasciando il tavolo come si trovava. Con piatti mezzi pieni, bicchieri semivuoti, vino sulla tovaglia ecc. La rappresentazione del disgusto crapulesco. E quei tavoli disgustosi diventavano opere d’arte, perché il povero Gino Di Maggio doveva fissare, non so bene con quale collante, tutti i resti della cena sul tavolo che diventava l’opera d’arte. Quelle furono le opere più belle di Daniel Spoerri. E lo furono veramente. E nei musei dove è presente, troverete quelle opere, il resto delle nostre e altrui cene. Ma io ricordo che la serata degli Acquari terminò in un litigio colossale, con bicchieri e piatti di spaghetti che volavano. Non lo sapevo ma capii che mettere insieme degli Acquari è un compito piuttosto difficile. Ricordo le parole e le scintille e i calci che volarono tra Daniela Palazzoli e Arturo Schwarz, seduti al mio stesso tavolo.

Arturo è stato anche un ottimo poeta e ora mi spiace non averlo frequentato più assiduamente. Ma lui era refrattario all’arte contemporanea, e le rare incursioni si sono rivelate delle vere débâcle. Eppure lui sapeva tutto di Dadaismo e Surrealismo, ne era il Sacerdote e il tenutario. Purtroppo il suo carattere, ribelle, forse simile al mio, non ci ha permesso di diventare amici.
Mi spiace caro, grande Arturo. E ti chiedo scusa per averti talvolta sottovalutato. Ora il cuore mi piange. Ma è troppo tardi.

Effemeridi

Maurizio Cattelan Forever: schiavo o padrone?

La mostra di Maurizio Cattelan all’Hangar Bicocca di Milano, attualmente in corso, ha destato interesse di gregge, molto gossip e tante critiche. Il pubblico dell’arte, sempre più folto e sempre più sofisticato, unitamente alla giovane critica che esce stremata dal Covid, talvolta hanno un po’ irriso la mostra e anche Cattelan. Ripetitivo, pompiere (qualcuno usa pompier, dimenticandone il significato), modaiolo. Niente di nuovo sotto i cieli. La retorica italiana che ha portato l’arte italiana quasi alla tomba, imperversa. Come i post di Fedez. E le opere presentate, rispondo io, ma le sapete guardare e leggere? Certo che la mostra è teatrale, tutta la grande arte è teatro, penso alla Cappella Sistina, un teatro per uno spettacolo universale. E le Stanze Vaticane di Raffaello non sono un piccolo teatro rinascimentale? E la Cappella degli Scrovegni? E la Basilica Superiore di Assisi? Grande Teatro medioevale.

E L’Ultima Cena? E Monna Lisa non è il teatro del potere dell’arte, che seppure tutti i veri esperti sappiano trattarsi di una copia, è bellissima e di fronte a cui in miliardi ci siamo inginocchiati e tutti pensiamo a Leonardo e alla sua sacralità dimenticando la copia? L’arte è soprattutto idea. E soprattutto convinzione cieca. Come il corpo di Cristo nell’ostia. O ci credi oppure ingoi solo una sfoglia sottilissima che (ai miei tempi) usciva dalla mani fatate delle suore di clausura di Trevi (sfoglia ai miei tempi pur ottima: da ragazzi passavamo dalle suore che da una grada buia ci passavano i ritagli delle ostie non utilizzati e noi ci ingozzavamo felici di quelle bontà, prima di entrare a scuola). Non capisco gli esperti che parlano di un Cattelan ripetitivo mentre osannano Lucio Fontana (ottimo artista) che in tutta la vita ha realizzato forse tre o quattro opere, per il resto a ripetere solo tagli e buchi? Io l’ho visto, mentre ero da lui e in mia presenza, su tele preparate, che realizzava, ammiccando, anche tre/quattro opere in mezz’ora. E Piero Manzoni non si è ripetuto anche lui una vita? E Paolo Scheggi? E Alviani? Una vita per una sola opera. Non parliamo di Carl Andre. Lo stesso immenso Jackson Pollock. L’arte non è una idea? Cattelan e qualsiasi artista anche solo spostando le opere nello spazio, ne modificano il concetto e anche il contenuto. Per un grande artista due più due deve sempre fare cinque o sette. Mai quattro. In Cattelan, gli stessi piccioni sono una finzione scenica. Lontani, nell’ombra dell’immenso universo spettrale, sembrano veri e imbalsamati, in realtà sono di resina e usciti a ripetizione da una macchinetta come fosse un kalashnikov. Magìa dell’ingegno umano.

Per questo anche fa un po’ sorridere leggere Lucien de Rubempré, columnist dell’ottimo notiziario d’arte Artslife, ma anche mio caro amico e che pudicamente si cela dietro il nome di uno sfortunato personaggio di Balzac, autore francese ottocentesco di feuilleton strappalacrime alla Grand Hotel. La sua è la storia del giovane ambizioso, con moglie e amanti tradite e lui stesso da loro tradito, abbandonato dagli amici e alla fine portato al suicidio. Un feilleuton che oggi farebbe ridere. E il mio amico che resuscita lo sfortunato Lucien de Rubempré, adottandone il nome come maschera, con uno stile come si conviene ad un vero ottocentista, ma con un linguaggio alla Bertinotti dei giorni migliori, ha pubblicato proprio su Artslife una recensione un po’ rocambolesca sulla mostra. Accusando addirittura Maurizio Cattelan di essere un servo del padrone, solo perché come testimonial indossa un abito Gucci, che il giorno dopo deve restituire. E ricevendone in cambio 5 mila euro. E varie sponsorizzazioni. Mi chiedo e chiedo all’introverso Lucien de Rubempré chi è il padrone: lo sponsor o il testimonial? O entrambi?

Bentornata Firenze

Firenze e la Toscana, se si escludono gli anni de La Voce di Papini e Prezzolini, diciamo dal 1910 al 1930, sono sempre stati molto refrattari alla contemporaneità. Se si esclude il grande momento storico del Rinascimento e un momento di centralità con Soffici, Papini, Primo Conti, Prezzolini ecc., Firenze e la Toscana sono stati assenti dal dibattito culturale che invece ha investito Roma, Torino, Milano nel dopoguerra. La Toscana non ha mai espresso una galleria d’arte propositiva (a parte fenomeni locali come Schema o Base) né artisti di rilievo che si siano collocati in un contesto nazionale o internazionale (in parte Maurizio Nannucci). Con l’eccezione di Sandro Chia, che deve però la sua mitica e transitoria fortuna a Roma e New York. Se fosse restato a Firenze avrebbe seguito le orme di Nativi e Berti, ottimi artisti ma oscurati dalla Storia e dalle risse fiorentine. Invece la Toscana, con Firenze, ha sempre espresso degli ottimi mercanti, dallo straordinario Roberto Casamonti con la sua galleria Tornabuoni, certamente l’eccellenza italiana del mercato anche se totalmente latitante sul piano propositivo: Roberto Casamonti è sempre stato un genio ad individuare le opere migliori, talvolta straordinarie, degli artisti affermati ma altrettanto improbabile nell’individuare giovani artisti non consacrati dal mercato. Ma è normale. Se si possiede un occhio speciale per il mercato, ci si assenta dall’attualità. Quasi inevitabile. O il passato oppure il presente. Si guarda indietro, non avanti. Altra ottima galleria di mercato e solo di mercato, è la Contini a Venezia, del pistoiese Contini: chapeau per le sue capacità di grande venditore ma mai guardare le sue scelte green. Mercanti speciali sempre toscani sono stati (e sono) Luciano Paladini e Claudio Poleschi, con ottimo curriculum e con una clientela che va dal sofisticato al popolare. Vendere è un’arte e vendere l’arte è ancora più un dono speciale. E molti in Italia, patria della vendita porta a porta e regina delle televendite, specialmente di opere modeste e più spesso di patacche, sono bravissimi. Non dimentichiamo che siamo la patria dei magliari. Purtroppo in Italia sono rari i bravi mercanti d’arte capaci di vendere arte di alto profilo. E rari i collezionisti che vogliano acquistarla.

Ma perché parlo di Firenze? Perché nell’ultimo decennio, forse grazie al sindaco Nardella o comunque durante il suo mandato, è diventata l’epicentro di mostre pubbliche di grande qualità e attualità. Ora è presente nuovamente Jeff Koons a Palazzo Strozzi, con una splendida mostra personale, Shine, dopo la sua storica presenza accanto al David di Michelangelo nel 2015.

Tra i miei appunti vorrei annoverare l’ottimo prodotto di mercato bravissimo e piacevole, Ali Banisadr, al Museo Stefano Bardini, e la spettacolare La Ferita di JR sulla facciata di Palazzo Strozzi. Ma soprattutto, e da esempio per tutti i musei italiani, la grande mostra American Art 1961-2001, curata da un vero specialista, Vincenzo De Bellis, e con opere di Andy Warhol, Mark Rothko, Louise Nevelson, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Barbara Kruger, Robert Mapplethorpe, Cindy Sherman, Matthew Barney, Kara Walker. Sponsor Gucci. Finalmente la grande moda affianca la grande arte.
Bentornata Firenze all’arte di oggi. Una mostra simile non si è mai vista in Italia.

Parlando del boia di Praga

Nel 1942 a Praga un gruppo di partigiani cecoslovacchi, arrivati in vari modi da Londra, compirono l’attentato più spettacolare e devastante nella storia del regime nazista. Durante una parata militare, con una bomba colpirono a morte il gerarca Reinhard Heydrich, generale 38enne, capo delle SS e considerato il delfino di Hitler. Heydrich era anche uomo di cultura, raffinato musicista, atleta olimpionico e collezionista d’arte: il vero ideale dell’ariano hitleriano. Le ritorsioni di Hitler furono feroci, un intero villaggio, Lidice (sede di alcuni membri della Resistenza boema), vicino Praga, fu distrutto, tutti gli uomini uccisi mentre le donne e i bambini deportati. Successivamente 82 bambini gassificati in Polonia. Questo monumento ai bambini, opera di Marie Uchytilová e suo marito Jiří V. Hampl, finanziato da privati, soprattutto stranieri, ricorda l’efferato eccidio che mi stringe ancora il cuore.

Marie Uchytilová e Jiří V. Hampl, Monumento ai bambini di Lidice

Io non amo i monumenti pubblici, anzi li detesto. Li ritengo violazione di spazio pubblico e offesa all’occhio: personalmente vorrei fare una eccezione per la Porta d’Europa di Mimmo Paladino a Lampedusa, per Ago, filo e nodo di Claes Oldenburg davanti alla Stazione Cadorna a Milano, per Dietrofront di Michelangelo Pistoletto a Porta Romana a Firenze, e per LOVE di Robert Indiana a New York. Poi non ne conosco altri ma forse ci saranno. Per il resto sono d’accordo con Kasper König: la scultura pubblica ideale è quella realizzata con il ghiaccio o la neve. Con la vita di un giorno. Perché domani il gusto e le visioni e le vicende saranno diverse.

Eppure questo monumento di Marie Uchytilová e suo marito Jiří V. Hampl mi ha commosso e mi piacerebbe anche visitarlo. Per deporvi un fiore. Colpa dell’età?

Massimo Minini e la pena di morte

Ecco il gioioso post su Facebook di Massimo Minini apparso alcuni mesi fa ma notato solo ora.

Ci sono troppi ladri rispettati e con troppi soldi Che possono fare il Bello e brutto tempo a piacere. Pagano e comperano tutto. Fino a Poco fa Arte e religione sembravano esenti.

Poi Dio è morto dai tempi Della vendita Delle indulgenze. l’Arte ora è solo questione Di record e prezzi.
IL sogno Americano è finito. peccato. la farsa volge in tragedia. IL nazista Trump deve andare Sulla sedia elettrica, esposto Al pubblico come esempio.

Conosco Massimo Minini da oltre 50 anni. Abbiamo condiviso anche una breve parte della nostra vita, un anno, forse due, collaborando attivamente (1971/1972) e anche condividendo lo stesso appartamento a Milano. L’ho sempre considerato un ragazzo (allora) e un uomo (poi) intelligente e posato, molto attento alle occasioni e con un ottimo occhio sull’arte. Ha fondato nel 1973, nella sua Brescia, la Galleria Banco, poi diventata Galleria Massimo Minini.

Massimo Minini ci mostra la sua splendida forma nella sua casa-villa di Malindi

Massimo, che io ritengo una grande formica (nel senso del comportamento: con la insuperabile capacità organizzativa delle formiche: il suo Archivio rappresenta il sogno di chiunque sia in possesso disordinato di opere e documenti) nella vita e nell’arte, e che è sempre stato anche un abile mercante (più mercante che gallerista direi, senza offesa, perché a differenza di sua figlia Francesca, che credo ne sia l’erede naturale, Massimo non ha mai rappresentato gli artisti seppure li abbia seguiti affettuosamente e con fedeltà sul piano commerciale), non avrei mai immaginato fosse un teologo della New Poverty né un agguerrito Giacobino. Invece a decriptare questo post (che un gentile amico mi invia) scopro che Massimo è un fautore della pena di morte per i ricchi. Cioè gli stessi che sino a ieri hanno contribuito a farne la fortuna economica. Credetemi, è sconvolgente venire a sapere oggi, sul comune e immancabile viale del tramonto, che il mio amico abbia avuto il meritato successo vendendo costose opere d’arte ai senza tetto di tutto il mondo. Come fanno i governi che tassano solo i poveri. Io, stupidamente, ho sempre creduto che i gentiluomini che Massimo frequentava, a Parigi, Bruxelles, Basilea, Colonia, fossero i ricchi ammalati d’arte in giro per il mondo a cui offrire opere d’arte di qualità. Oggi invece scopro che li inseguiva per prenderne l’indirizzo e mandarli poi, insieme a Trump, sulla sedia elettrica. La vita, soprattutto verso la fine, è sempre troppo piena di sorprese.

PS: io ho sempre creduto che i due maggiori criminali della storia occidentale siano stati Stalin e Hitler, oppure, se volete, Hitler e Stalin. In ordine alfabetico. Invece grazie a Massimo Minini, alla mia età, scopro che è stato Donald Trump. Non si finisce mai di imparare.

Gli hotel di cattivo gusto grazie all’arte

Pochi condividono con me l’idea che l’arte, quando è brutta, può distruggere qualsiasi bellezza, anche la più raffinata, mentre una bella opera d’arte riesce a trasformare in museo anche una discarica.
Il soggiorno che noi presentiamo è quello di un importante hotel di Milano, parte di una catena nazionale e internazionale di forte successo.
L’uso dell’arte come decorazione di un ambiente ha bisogno di una intelligenza informata e raffinata, non di un designer grossier. Come forse in questo caso.

Anche Salvini si dà all’arte contemporanea

Anche l’“intellettuale” Matteo Salvini si dà all’arte contemporanea (certo non è del livello dell’intellettuale Bertinotti, ai tempi d’oro sempre in presa diretta dalla Direzione della CGL con una bellissima Stella di Gilberto Zorio, a ricordare il trascorso battagliero dell’ex Segretario della CGL, ma anche una sbirciata bonaria alle Brigate Rosse, che avevano come simbolo proprio una stella). Il buon Salvini si accontenta di un paesaggio un po’ anemico, come direbbe Mario Schifano, ma anche di buona fattura. Come voto potrei dare un 5.

Mentre Massimo Cacciari, dall’alto del suo snobismo veneziano, mostra una maggiore attenzione all’arte di oggi. Voto 6,5. Dalla mia postazione di Senior arroccato in viale Stelvio 66, fra terrazzo profumato di verde, il divano con la TV, il computer acceso e che mi aspetta pazientemente giorno e notte, ormai giudico il livello culturale dei politici, dei giornalisti, dei giudici, dei virologi non da ciò che dicono perché l’omologazione è totale: mi diverto a giudicarli dalle opere d’arte di cui si circondano. Ormai destra, centro e sinistra sono state oscurate da opere d’arte belle, passabili, orrende. E dunque potete immaginare quanti like partono dalla mia mente. E le figure che hanno raggiunto la sufficienza, tra le centinaia che ho visto, saranno state tre o quattro. Largheggiando ovviamente potrei dire cinque.

La nuova Samaritaine di Bernard Arnault, nuovo centro tentacolare dell’arte contemporanea

Evviva la lotta dei Titani dell’Arte

Che bella la lotta fra Titani dell’arte, due super ricchi snob e intelligenti che vogliono fare concorrenza a Giulio II e a Lorenzo de’ Medici a colpi di Arte Contemporanea. Peccato che questi bracci di ferro avvengano altrove e noi qui a guardare, impietriti. Parlo di Bernard Arnault e di François Pinault, il primo con l’acquisto e la ristrutturazione del mitico edificio de La Samaritaine, dove negli anni ’60 (anche con Massimo Minini) mi recavo intimorito dalla grandeur ad acquistare capi di abbigliamento assolutamente economici ma un po’ esotici per noi italiani che avevamo come unico riferimento Upim o Standa. Invece La Samaritaine ora sta diventando un vero Laboratorio e Centro dell’Arte Contemporanea. Dove Emmanuel Perrotin, sguardo furbo di contadino delle Camargue e genio delle strategie di mercato (unitamente a Damien Hirst, di cui fu il primo gallerista), ha subito affittato un negozio che diventerà un centro planetario di arte da godere per adulti e bambini. Il mio primo viaggio con Ludwig a Parigi sarà per visitarlo e fare incetta di mitici souvenir d’arte. Per neonati e Senior.
Il secondo, François Pinault, con la sua Bourse de Commerce che è diventato il nuovo epicentro dell’arte contemporanea a Parigi e nel mondo (senza dimenticare i suoi Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia). Il vero museo per tutti, con grandi artisti e tante sorprese riportate alla luce. Come dovrebbe fare un museo moderno e multitasking. Per sopravvivere e far sorridere.

Mark Kostabi insegna agli artisti (e a tutti) come diventare ricchi e famosi

Curiosa questa conferenza recente di Mark Kostabi a Jesi, nelle Marche, che potrete ascoltare nel link seguente. Kostabi, pur appesantito nel corpo dalla pasta “cacio e pepe” romana di cui so che è ghiotto e di cui fa incetta essendo vegetariano, mantiene ancora una mente lucida e brillante come pochi e come il suo lavoro potrebbe non portare a credere (anche se io personalmente ritengo che il lavoro di Kostabi sia molto originale, ma la gente e nemmeno i suoi collezionisti sanno come nasce e si sviluppa).
Ascoltatelo e rimarrete sorpresi. Il suo decalogo (si fa per dire) è ancora valido. Credo che esageri su New York perché il cuore dell’arte si è allargato e ora anche alcune “periferie” fanno la voce grossa. Comunque ciò che afferma il coriaceo Mark Kostabi è sacrosanto e vale per tutti gli artisti, scrittori, intellettuali. Ma anche per molte altre professioni. La qualità in primis. Ma poi fortuna, contatti, relazioni, location, cocciutaggine la fanno da padroni.

Come diventare un artista ricco e famoso. | Mark Kostabi | TEDxFermo – YouTube

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