Tratto dall’Amarcord 61 di Giancarlo Politi, Aperiodico di Arte e Antiarte Politi-camente scorretto
La mostra di Maurizio Cattelan all’Hangar Bicocca di Milano, attualmente in corso, ha destato interesse di gregge, molto gossip e tante critiche. Il pubblico dell’arte, sempre più folto e sempre più sofisticato, unitamente alla giovane critica che esce stremata dal Covid, talvolta hanno un po’ irriso la mostra e anche Cattelan. Ripetitivo, pompiere (qualcuno usa pompier, dimenticandone il significato), modaiolo. Niente di nuovo sotto i cieli. La retorica italiana che ha portato l’arte italiana quasi alla tomba, imperversa. Come i post di Fedez. E le opere presentate, rispondo io, ma le sapete guardare e leggere? Certo che la mostra è teatrale, tutta la grande arte è teatro, penso alla Cappella Sistina, un teatro per uno spettacolo universale. E le Stanze Vaticane di Raffaello non sono un piccolo teatro rinascimentale? E la Cappella degli Scrovegni? E la Basilica Superiore di Assisi? Grande Teatro medioevale.
E L’Ultima Cena? E Monna Lisa non è il teatro del potere dell’arte, che seppure tutti i veri esperti sappiano trattarsi di una copia, è bellissima e di fronte a cui in miliardi ci siamo inginocchiati e tutti pensiamo a Leonardo e alla sua sacralità dimenticando la copia? L’arte è soprattutto idea. E soprattutto convinzione cieca. Come il corpo di Cristo nell’ostia. O ci credi oppure ingoi solo una sfoglia sottilissima che (ai miei tempi) usciva dalla mani fatate delle suore di clausura di Trevi (sfoglia ai miei tempi pur ottima: da ragazzi passavamo dalle suore che da una grada buia ci passavano i ritagli delle ostie non utilizzati e noi ci ingozzavamo felici di quelle bontà, prima di entrare a scuola). Non capisco gli esperti che parlano di un Cattelan ripetitivo mentre osannano Lucio Fontana (ottimo artista) che in tutta la vita ha realizzato forse tre o quattro opere, per il resto a ripetere solo tagli e buchi? Io l’ho visto, mentre ero da lui e in mia presenza, su tele preparate, che realizzava, ammiccando, anche tre/quattro opere in mezz’ora. E Piero Manzoni non si è ripetuto anche lui una vita? E Paolo Scheggi? E Alviani? Una vita per una sola opera. Non parliamo di Carl Andre. Lo stesso immenso Jackson Pollock. L’arte non è una idea? Cattelan e qualsiasi artista anche solo spostando le opere nello spazio, ne modificano il concetto e anche il contenuto. Per un grande artista due più due deve sempre fare cinque o sette. Mai quattro. In Cattelan, gli stessi piccioni sono una finzione scenica. Lontani, nell’ombra dell’immenso universo spettrale, sembrano veri e imbalsamati, in realtà sono di resina e usciti a ripetizione da una macchinetta come fosse un kalashnikov. Magìa dell’ingegno umano.
Per questo anche fa un po’ sorridere leggere Lucien de Rubempré, columnist dell’ottimo notiziario d’arte Artslife, ma anche mio caro amico e che pudicamente si cela dietro il nome di uno sfortunato personaggio di Balzac, autore francese ottocentesco di feuilleton strappalacrime alla Grand Hotel. La sua è la storia del giovane ambizioso, con moglie e amanti tradite e lui stesso da loro tradito, abbandonato dagli amici e alla fine portato al suicidio. Un feilleuton che oggi farebbe ridere. E il mio amico che resuscita lo sfortunato Lucien de Rubempré, adottandone il nome come maschera, con uno stile come si conviene ad un vero ottocentista, ma con un linguaggio alla Bertinotti dei giorni migliori, ha pubblicato proprio su Artslife una recensione un po’ rocambolesca sulla mostra. Accusando addirittura Maurizio Cattelan di essere un servo del padrone, solo perché come testimonial indossa un abito Gucci, che il giorno dopo deve restituire. E ricevendone in cambio 5 mila euro. E varie sponsorizzazioni. Mi chiedo e chiedo all’introverso Lucien de Rubempré chi è il padrone: lo sponsor o il testimonial? O entrambi?