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L’arte contemporanea come (brutta) nuova religione mondiale. Tra chierici e curator, intervista ad Angelo Crespi

Paul McCarthy
Angelo Crespi (Credits: Walter Capelli)
Duecento pagine da leggere tutte d’un fiato. Nostalgia della bellezza (Giubilei Regnani Editore) è l’ultimo pamphlet di Angelo Crespi. Una lotta appassionata in punta di penna per la bellezza, essere e essenza oramai misconosciuta e sepolta nel luna park dell’arte contemporanea. Il pezzo più acclamato e iconico dell’avanguardismo è una banana appesa con lo scotch; bandita la bellezza e il fatto bene, con il concettuale si è consolidato il sistema delle brutte arti e, assecondando l’idea per cui basta l’idea, prevalgono lavori orrendi, giochini insensati che soddisfano solo gli addetti ai lavori. Un mondo autoreferenziale, quello dell’art system, in cui le opere non hanno più un valore bensì un prezzo e i musei e i curator lavorano per aumentarlo, mentre i collezionisti speculano, immaginando di trarre profitto dalle azioni della premiata ditta Banksy-Cattelan-Koons.
L’arte contemporanea come nuova religione mondiale. Perché a questo “ordine” non serve e non importa la bellezza? Di cosa ha/hanno paura? E perché abbiamo bisogno di bellezza?

Sono domande a cui è difficile rispondere. Se fossi un teologo mi preoccuperei dell’irruzione del demonio nel secolo e di come sia perversa l’inversione tra il bello e il brutto che ci fa preferire la bruttezza e adorare il non-senso. Usando invece categorie filosofiche, mi sembra che il tramonto dell’Occidente sia irreversibile e non ci siano avvisaglie di rinascita: non ci resta neppure il sentimento del tragico, solo una patetica ironia con cui ci nascondiamo l’imminente fine.

All’art system non interessa la bellezza perché domina un profondo nichilismo che ci impedisce di capire che la bellezza è innanzitutto un valore politico, prima che estetico: essa spinge all’imitazione positiva, ci induce all’imitazione delle sue forme e dei suoi modi, crea armonia e differenze e aggregazioni proprio dove l’universo spinge all’entropia e all’indifferenziazione. Ed è per questo l’uomo sente un innato bisogno di bellezza, perché essa ci permette di intravedere l’infinito nel frammento, in qualche modo di eternare noi stessi che siamo perituri e destinati a scomparire. Credo che uno dei bisogni per cui nacque l’arte sia stato proprio il tentativo di non scomparire. Faccio però un inciso: non ho nessuna tentazione estetizzante né passatista né pittorialista: quando parlo di bellezza intendo la perfezione della forma, cioè penso ad un’opera che è stata portata a termine come doveva essere portata a termine, a cui non si può aggiungere o togliere nulla, in questo senso etimologicamente “perfetta”. Affido cioè alla forma il potere di manifestare la bellezza e la verità delle cose, ed è per questo che aborro sommamente l’arte concettuale in cui basta l’idea, credendo invece che l’unica ragione fondamentale dell’arte sia la forma, la forma perfetta perciò in grado perfino di emendare il brutto, raffigurandolo.

Chi sono i chierici, i santoni, i predicatori e tutti i figuri della religione nuova?

Diciamo che ai vertici della gerarchia, quasi divinità, stanno gli “specullector” cioè collezionisti-speculatori che sono in grado di determinare il mercato e i prezzi, considerando che nell’arte contemporanea il prezzo è diventato il fattore esiziale per l’esistenza dell’opera. Mi sto riferendo a personaggi, come per esempio Pinault, che nello stesso tempo sono imprenditori miliardari del lusso, mecenati di innumerevoli artisti, presidenti di eponime fondazioni super chic, ma anche proprietari di case d’aste che sono i certificatori pubblici del prezzo di un’opera d’arte e dunque i player più importanti di un mercato che è abbastanza grande per permettere super profitti e sufficientemente piccolo per essere controllato come un oligopolio. Il conflitto di interessi che si genera non è accettato in nessun altro mercato, né in quello finanziario né in quelli più tradizionali, dove vigono regole di trasparenza, sono vietate le concentrazioni.

Al di sotto di queste divinità quasi ascose ci sono i sacerdoti – i super galleristi e le super fiere – poi i chierici – curator e direttori di musei – infine il clero minore – piccole gallerie, giornalisti e umanità varia.

Paul McCarthy
Quanto peso ha l’ignoranza all’interno della nuova religione? Se i fedeli fossero colti e i chierici fossero onesti ci sarebbe meno spazzatura e meno supercazzole in giro…?

I fedeli fanno la fila per adorare le supercazzole dell’arte concettuale, non le capiscono, ma hanno vergogna a dirlo, e per questo assistono ai riti guardandosi di sottecchi sperando che qualcuno abbia il coraggio di urlare fantozzianamente “la corazzata Potemkin è …”.  Ma non è facile liberarsi dai falsi idoli, non è solo una questione di conoscenza o ignoranza: essendo l’arte concettuale contemporanea un’arte che non si può vedere con gli occhi, ma deve essere guardata con le orecchie, dobbiamo affidarci alla neo lingua incomprensibile dei curator che è un sistema di potere per tenere in scacco il popolo ed è per questo che i curator si ammantano di un falso sapere, come fossero gli unici in grado di tradurre la dottrina. Così pensata, l’arte contemporanea concettuale è anti democratica perché impedisce a chiunque di farsi un’idea e giudicarla guardandola semplicemente con gli occhi.

L’arte dovrebbe trattare temi alti, esistenziali, riempire l’animo, sublimare, guardare al di là delle cose, fornire chiavi di lettura del presente e così via. Cosa tratta invece la maggior parte del contemporaneo? E torniamo alla domanda precedente, perché e perché, tra l’altro, lo fa di proposito?

L’arte contemporanea concettuale ossessivamente esprime la propria inutilità, pensiamo alla banana di Cattelan che non dice niente di noi, del fatto che moriremo e con noi la persone che ci sono care, del fatto che amiamo spesso non riamati, che percepiamo l’eterno ma non possiamo raggiungerlo, che questo iato produce in noi uno struggimento senza fine… la banana ci dice solo che anche una banana appesa con lo scotch può costare 120 mila dollari e gli apologeti del contemporaneo la adorano come fosse il vitello d’oro. Eppure l’arte era nata per confortarci, per farci percepire il divino e l’eterno, per farci abitare meglio il mondo, non per manifestare l’orrore scatologico dei nostri sfinteri.

Paul McCarthy
Cos’è il sacro? Perché fa paura? E chi fine ha fatto nell’arte contemporanea, assieme alla bellezza, il sacro? E chi fine hanno fatto entrambi (bellezza e sacro) nelle architetture ecclesiastiche per esempio…?

Non saprei dire cosa è il sacro, noto però che molti poeti citati nel mio libro – Rilke per esempio e Yeats – hanno accostato il termine “bellezza” a quello di “tremendo” o di “terribile”, come se la bellezza, prima ancora che il sublime, fosse già una cosa a cui ci si accosta tremando,  come se il bello fosse “l’eco di un alto sentire” e rimandasse al tremore del o per il sacro, cioè quando aderiamo completamente al divino il quale solleva, fa levitare gli anacoreti in preghiera.

Per quanto riguarda le architetture ecclesiastiche rimando a un mio precedente libro (“Costruito da Dio”, Johan and Levi 2017) in cui ho cercato di spiegare, soprattutto a me stesso, perché le chiese contemporanee sono orrende e perché proprio i musei di arte sono diventati le nuove cattedrali di una nuova religione.

Qual è il potere della pittura?

Come disistimo l’arte concettuale per cui basta l’idea e l’opera è affidata conto terzi, così prediligo la pittura e la scultura, figurativa o astratta, che stanno nel solco della tradizione. La pittura è l’unica forma di avanguardia possibile, perché nes­sun pittore prima di dipingere il quadro sa cosa e come dipingerà. I pittori sono degli anacoreti che nella solitudine compongono per la salvezza, loro e nostra. Anche gli scultori. Tutti quegli artisti che fanno loro le opere loro, possono in qualche modo salvarci, svelandoci qualcosa che ancora non sape­vamo di noi o del mondo.

Preferisco la pittura e la scultura nel solco della tradizione che – si badi – non significa la ripetizio­ne di stili e stilemi, semmai la capacità di perenne metamorfosi. D’altronde la tradizione non è ado­rare la cenere, bensì conservare il fuoco. Il pittore che dipinge è come il poeta che scrive. Se è sincero, la sua pittura assomiglierà a quello che intimamen­te è lui; similmente il poeta, il suo metro lo rap­presenta, è come il respiro. Quando uno scrive po­esia o dipinge o scolpisce, e lo fa in modo sincero, quello che produce riflette quello che è, riflette il suo tempo e la sua intelligenza, il suo cuore, il suo talento, non c’è modo di bluffare.

Due parole per inquadrare il mercato dell’arte contemporaneo… valore, prodotto, players, speculazione, finanziarizzazione…

Di solito per spiegare il mercato dell’arte contemporanea uso due aforismi. Primo: l’arte antica costava perché valeva, l’arte contemporanea vale perché costa. Secondo: l’arte antica era difficile da fare facile da capire, l’arte contemporanea è facile da fare, difficilissima da capire.

Aggiungo che per la prima volta nella storia dell’uomo, si compra arte immaginando ai possibili ricavi che ne verranno e non perché ci piace, perché è bella, perché immaginiamo di legare il nostro nome ad essa, o solo per il sommo piacere di possederla. Questa sorta di finanziarizzazione ha ucciso l’arte, prima di oggi nessuno quando commissionava un’opera d’arte o comprava un quadro si chiedeva quanto avrebbe potuto valere da lì a cinque anni, come fanno adesso i clienti delle gallerie. Ed qui, sta il delirio del contemporaneo.

Nostalgia della bellezza

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