Medi/azione o flusso? Alcune riflessioni in margine ad una mostra di Gabriele Perretta per il Festival di Corciano, in Umbria
La mostra “+ Divenire. Dove inizia il nuovo esodo…” curata, e soprattutto teorizzata, da Gabriele Perretta per il Festival di Corciano recentemente svoltosi, ispira alcune riflessioni, in parte legate a questioni antiche, in parte a problematiche odierne. Tra le questioni antiche si può collocare la celebre distinzione tra “infinito potenziale” e “infinito attuale”, trattata fin dagli albori della storia della filosofia ma che ha ottenuto successivamente grandi ripercussioni nelle scienze, sia logiche che empiriche. Semplificando, si ricorderà che l’“infinito potenziale” è quella possibilità di aggiungere, senza fine, un ulteriore elemento ad una quantità data rendendo impossibile raggiungere un risultato ultimo.
L’“infinito attuale” o “infinito in atto” invece è la collezione di tutti i punti di un insieme che può sempre essere suddiviso secondo una procedura interminabile. Potremmo prospettare, saccheggiando questo esempio, che esiste un’idea del mondo, quella di “infinito potenziale” che vede in un processo addittivo e produttivo la matrice di tutto quello che esiste e che tutto quello che ne deriva sarebbe una caduta o una limitazione che lo tradisce. L’ ”infinito attuale” invece sembra rappresentare la convinzione che la realtà per quanto suddivisibile in una parcellizzazione indefinita sia comunque un oggetto concreto dal quale partire e che quindi l’infinitezza si misuri pur sempre con qualche forma di limitazione.
Questa contrapposizione, apparentemente astratta, si ripresenta non solo nelle riflessioni dei filosofi della Scienza del’ 900 ma in modo meno “tecnico” e molto concreto in recenti movimenti di pensiero che coinvolgono soprattutto l’ambito sociologico e di conseguenza quello della riflessione estetica. Nelle problematiche odierne delle quali si accennava, sotto l’influsso di certa filosofia francese, in primis Deleuze e Foucault, affermatasi tra anni 60 e 70, si è sviluppata una ”vulgata” della stessa che ha celebrato un’idea della soggettività e del pensiero basata sulla trasmigrazione e fluttuazione continua dell’identità e del sapere contestando e rifiutando vari generi di fissità, di convenzione, norma e di eredità culturale, ritenendoli strutture di dominio. Si tratta di un movimento di pensiero complesso che sarebbe ingiusto semplificare secondo certe formule tramite le quali viene diffuso.
In esso convivono e si mescolano diverse componenti: c’è un certo rifiuto del “naturalismo” dei ruoli, soprattutto sessuali, per cui alla fine tutto risulterebbe socialmente, più che biologicamente, determinato e di conseguenza in realtà “potenzialmente” permutabile; c’è una forte propensione alla riscrittura delle narrazioni improntate ad una linearità storica per frantumarla secondo una pluralità di punti di vista; c’è una tendenza a ideologizzare e a politicizzare i prodotti culturali relativizzandone il valore secondo un approccio legato al genere e al multiculturalismo.
C’è poi anche una tendenza che nell’arte tende, sulla falsariga, a deprezzare la “rappresentazione” e a contestare l’entità oggettuale dell’opera per privilegiare il “concetto”, l’evento e l’ambiente. Si noterà, riprendendo l’esempio citato all’inizio, quanto quest’insieme di posizioni riecheggi quella dell’ “infinito potenziale”. Ci si domanda però se l’estensione sistematica di questo modo di pensare a vari ambiti non sia diventato un ricettario accademico e onnicomprensivo.
Il carattere “probabilistico” delle Scienze in quest’ottica è infatti utilizzato frequentemente per sdoganare tutti i “se“ possibili, dato che non esistendo nessuna evidenza al 100%, ogni risultato o prova può venir contestato da tutte le possibili eccezioni, quando non viene etichettato, spesso a sproposito, come “strumento di assoggettamento maschilista”, come se tra le donne non esistessero scienziate e come se tutti gli scienziati fossero dei Frenologi. Ma davvero si può delegittimare i risultati delle Scienze sotto l’assunto che ogni sapere definito sarebbe lo svilimento di un mondo originario irrappresentabile?
L’idea di un “flusso” primigenio e incondizionato, applicato a priori, come antidoto alle questioni più diverse, non persuade come base fondativa: sembra inconsapevolmente affiancare piuttosto, come illustri commentatori hanno notato, l’esaltazione della libera circolazione delle merci e della “nuvolaglia” finanziaria propugnate dal Neo – Liberalismo. Ma non è forse vero che dall’idea di un mondo aperto e senza limiti, dopo la crisi del 2008 siamo tornati ad un consueto mondo fatto di blocchi contrapposti e di rapporti di forza globali? Sarebbe forse troppo banale accennare alla pandemia che ha ulteriormente incrinato le nostre abitudini alla libera circolazione? Le rivendicazioni dei diritti possono esistere senza soggetti individuati? Il passaggio verso una civiltà che abbia il suo focus sull’ecologia non implicherebbe a sua volta conoscenze tecniche, priorità, scelte, sacrifici più che flussi indistinti?
Si potrebbero citare tanti altri esempi…
Insomma, si ha l’impressione che, quest’armamentario teorico, al di fuori di certi legittimi contesti, non sia adatto a capire la concretezza del mondo in cui viviamo e non ci dia davvero gli strumenti finiti per modificarlo. Senza contare che non si possono accogliere che con una certa perplessità certi provvedimenti presi, sotto l’influsso di quest’impostazione, nei piani di studio di diverse università oltreoceano: ad esempio la sostituzione della Storia dell’Arte, e quindi una chiave di lettura complessiva contestata in quanto tale, con percorsi tematici pericolosamente unilaterali o la soppressione degli studi classici perché ritenuti retaggio del colonialismo.
Nella mostra di Gabriele Perretta una complessa elaborazione teorica ha accompagnato le opere che nelle varie sezioni toccavano i temi del Divenire e del Genere.
Non a caso i gruppi sono stati scanditi con titoli che allegorizzano i corni del problema: ad una “Forma Fluens” infatti si aggiungono una “Sincronia” e una “Diacronia”. “Un’opera d’arte ha valore per il suo pieno o per il suo vuoto? Nel vuoto noi viviamo, ma è un vuoto modellato dal pieno dell’essere artistico, che è il suo involucro. Sono entrambi essenziali alla creazione del significato artistico dell’essere e del divenire. Ma questo ci riporta alle stesse leggi dell’arte e al simbolo che meglio di chiunque altro interpreta visivamente questo concetto: essere e divenire”. Insieme ai lavori di artisti di varie generazioni come Karin Andersen, Mirella Bentivoglio, Massimo Giacon, Giorgio Carpinteri, Titina Maselli, Silvia Serenari, Paola Gandolfi, Giorgio Lupattelli e diversi altri, figurano anche autori che storicamente sono tra i più rappresentativi delle tematiche di genere o delle identità mutanti: Urs Luthi, Cindy Sherman, Francesca Woodman, Jasumasa Morimura, Shirin Neshat ecc.
Dagli inizi degli anni 90 Perretta, con un approccio di scrittura denso, magmatico e in via di progressiva rielaborazione, ha affrontato il tema del Medialismo, traducibile, oltre che come esempio di critica artistica operativa, come un’attenzione nuova al medium artistico sulla spinta di un mutamento antropologico culturale che è andato affermandosi dalla fine degli anni 80, tra crisi delle ideologie e avvento della realtà digitale. La sua riflessione si caratterizza come un superamento della disposizione ingenua, di ascendenza romantica, che ha voluto inseguire l’annullamento della distanza tra arte e vita fino a considerare l’opera un impedimento; pur mirando a sua volta ad una trasformazione e ad una critica della realtà data, il discorso recondito di Perretta è improntato invece al realismo, seppure un realismo che non si accontenta di sé stesso: il Paradiso non si realizza in Terra ma a tratti, problematicamente, lo si realizza nell’opera d’arte. Quindi inevitabilmente Paradiso e Inferno. Il matrimonio burrascoso tra l’opera e la sua negazione.
“Ogni essenzialismo deve presupporre, come suo altro esterno, un empirismo, un materialismo dell’opera. Quando l’essere diventa senso, la differenza tra essenza e empirico diventa interna all’Essere dell’opera”. L’arte non deve recuperare il mezzo come autosufficenza e compiutezza formale, né come era stato teorizzato dal tardo Modernismo, né come ritorno ad un’ideale di “bellezza” corrivo e decontestualizzato: non è più possibile ritrovare un Gold Standard valutativo e la forma si sorregge piuttosto nella tensione dell’attraversamento e della negazione di sé stessa; l’arte, così com’è intesa dal Medialismo, è lo strumento di libertà e di reinvenzione profonda dell’identità che nel limite dell’opera, che di volta in volta riconosce e trasgredisce, trova la sua interfaccia con il concreto e con la collettività: “È essere in grado di strappare, da una deviazione agrammatica dell’arte, un contesto che va oltre ciò che è scritto, e che rompe dal linguaggio ciò che è indicibile e porta alla sensazione di estraneo”.
La tensione tra generale e particolare, tra maggiore e minore, implica un corpo a corpo che supera il rigorismo intransigente dei “concettismi” di vario genere, che pretendono troppo da quel troppo poco che lasciano vedere. Quando la grande artista americana Cindy Sherman, concretamente, altera e ricombina l’immagine identitaria dimostra una grande consapevolezza del mezzo e non fa della teoria pronta per l’uso amplificando retoricamente quello che non si vede : all’inizio della sua carriera, adottando un’immagine demodé connotata da un preciso ambito culturale, simula la banalità della fotografia dozzinale spettralizzandola e dimostrando grande consapevolezza storico – tecnica del mezzo così come, adottando l’ambientazione dei suoi più recenti scenari neo – hollywoodiani, di per sé già implicanti specifiche focalizzazioni temporali – culturali, dimostra una grande cura formale passando al fotoritocco anche i dettagli più secondari degli sfondi.
Si potrebbe dire che le opere di Cindy Sherman non alludono tanto ad un mondo liberato quanto ad un intreccio dell’ipotesi di questo con la complessità di una realtà emotiva che può anche essere traumatica e di un reale che è sempre irrisolto : “Creare è sempre non finito, perché produce sempre nuove relazioni di molteplicità e perché ha un’espressione che parla da sola. È impersonale perché ha la capacità di realizzare artifici per combinare nuove espressioni, il cui centro non è l’arte individuale, ma tutti i rapporti delle dipendenze che esistono intorno all’artista ed agli altri agenti: relazioni artista e natura, artista e tempo, artista e oggetto”.
https://www.comune.corciano.pg.it/manifestazioniacorcianocapolu/corciano-festival-agosto-corcianese
Walter Bortolossi