Una lunga intervista a uno dei protagonisti dell’arte del nostro tempo, ricca di aneddoti sulla sua infanzia e giovinezza e sugli artisti che più lo hanno influenzato, dall’eredità di Duchamp fino ai suoi legami culturali e affettivi con l’Italia. Il libro esce in concomitanza con la mostra Jeff Koons. Shine a Palazzo Strozzi di Firenze.
Dopo il record di Rabbit, il coniglietto d’acciaio battuto all’asta da Christie’s per oltre novanta milioni di dollari, Jeff Koons è il re indiscusso del mercato dell’arte. Artefice di opere che sono ormai entrate nell’immaginario collettivo per la loro capacità di esplorare i luoghi comuni della società dei consumi, Koons mette in scena il desiderio e accoglie lo spettatore in uno spazio di gratificazione immediata.
Frutto di varie conversazioni registrate tra il 2018 e il 2021, l’intervista condotta da Massimiliano Gioni mette a nudo la filosofia di cui si nutre una pratica artistica che, nel solco aperto da Marcel Duchamp, assorbe diverse influenze: dal Surrealismo al Dadaismo, dalla cultura Pop americana ai Chicago Imagists, senza sottrarsi alla fascinazione per l’arte rinascimentale italiana con la quale Koons intrattiene da sempre un dialogo privilegiato. Sono, queste, le tappe di una carriera che dall’infanzia in Pennsylvania lo conduce a New York sulle note di Patti Smith, dove lavora dapprincipio come impiegato al Membership Department del MOMA, poi come commodity trader, prima di conoscere il sapore del successo con la personale del 1980 al New Museum, la cui vetrata sulla Quattordicesima è trasformata in un’installazione facilmente scambiabile per la vetrina di un negozio. Del resto, la vetrina in quanto dispositivo che innesca il desiderio è un concetto molto esplorato in Koons.
Già Duchamp, suo padre putativo, aveva affrontato quella che chiamava «la questione delle vetrine […] che celano […] il coito sotto uno strato di vetro». Koons va oltre: con l’uso di materiali specchianti amplifica l’attrattiva quasi erotica che si sprigiona dai banali oggetti esposti, li rende voluttuosi come sirene che seducono lo spettatore invitandolo a partecipare alla stessa idea di successo di cui si fanno messaggeri. L’intero corpus di opere di Koons sembra incoraggiare lo spettatore dicendogli: «Se c’è un posto per me, può esserci anche per te. Pensa alla mia formazione, al mio passato. Pensa a chi sono. Se ce l’ho fatta io, non c’è motivo per cui non possa farcela anche tu». E lascia intendere che la chiave del successo sta proprio nell’accettare senza fisime ciò che si è: la propria provenienza, il proprio background culturale.
Così facendo, Koons spinge la democratizzazione dell’arte fino alle sue più estreme conseguenze, come egli stesso ha confessato in più occasioni: «Da sempre sono consapevole del potere discriminatorio dell’arte, e da sempre mi oppongo».
In calce all’intervista, un saggio di Gioni offre una panoramica dei principali nuclei tematici trattati: il ruolo dell’America per la sua formazione personale e artistica; la teoria e la pratica del readymade; la qualità feticistica delle opere; il sacro e il profano; il consumismo e l’idolatria.