Una mostra non fa che disinnescare i dispositivi sui quali appoggia l’operazione creativa, ma diremmo meglio comunicativa, di Koons
“Il lavoro dell’artista consiste in un gesto con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine; tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte”. Con queste parole – fra le altre – Jeff Koons si presenta all’importante mostra che gli dedica a Firenze Palazzo Strozzi. Curata da Arturo Galansino e Joachim Pissarro, l’esposizione mette davanti agli occhi dei visitatori una selezione delle più celebri opere dell’artista, dalla metà degli anni Settanta a oggi. E proprio qui nasce la questione: perché all’esperienza visuale diretta di tante opere, che pochi avevano potuto fare in precedenza, l’arte – quantomeno la grande arte, che ci si aspetterebbe da un evento tanto atteso e sostenuto – “non avviene”.
Sulle prime, durante la preview riservata alla stampa, maturavamo un titolo che risuonasse così: “Nessuna sorpresa”. Volendo ammiccare al fatto che la visione “fisica” di tante opere di Jeff Koons non si differenziasse troppo dall’esperienza che se ne può fare vedendole online, magari su Instagram. Ben poche le suggestioni ricevute dall’esperienza diretta, dal dato sensoriale, plastico, spaziale. Giusto una certa monumentalità, innegabile davanti ad alcune delle sculture. Ma poi, proseguendo nella visita, l’approccio ha avuto una sterzata. Perché abbiamo presa coscienza del fatto che una mostra – non QUESTA mostra, sia chiaro, ma una qualsivoglia mostra – non fa che disinnescare i dispositivi sui quali appoggia l’operazione creativa, ma diremmo meglio comunicativa, di Koons.
Esorcizzazione plastica della verità
Una spugna “ridiventa” una spugna. Un palloncino gonfiato ti chiama a essere tastato per verificarne la pressione. Dal vero cade il meccanismo meramente effimero dell’esorcizzazione plastica della verità. Quella funziona nei film di Tarantino, perché nessuno potrà mai andare a toccare con mano il finto sangue che sgorga a fiotti nella Casa delle Foglie Blu in Kill Bill. Paradossalmente, sta proprio in questo il valore dell’operazione del bravissimo Arturo Galansino: dare a noi gli strumenti – era accaduto anche con le re-performances di Marina Abramovic – per valutare con cognizione certi fenomeni contemporanei che con l’”arte” hanno poco a che fare. E aiutarci a tirar fuori dai cassetti uno strumento ormai quasi scomparso: la stroncatura. Dell’artista, non di questa mostra.