Elena Ceratti racconta Carla Cerati in occasione della mostra che raccoglie 88 fotografie dell’artista. Carla Cerati. Uno sguardo di donna su volti, corpi, paesaggi è in mostra all’Appartamento del Principe della Reggia di Colorno (Parma).
Fotografa e scrittrice, Carla Cerati dalla fine degli anni Cinquanta, sposata e madre di due figli, decide di guardare il mondo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica. Così a fotografia diventa il suo strumento “per uscire dalla gabbia”. Un’innata curiosità la porta a documentare una società in fase di cambiamento, il suo sguardo documenta paesaggi e persone lungo tutta l’Italia.
A Milano si sofferma sugli incontri culturali alla Libreria Einaudi. Da qui nasce una galleria indimenticabile di ritratti a scrittori, artisti, architetti, attori e musicisti. Poi è la serie dei nudi femminili e in seguito l’alluvione di Firenze e Morire di Classe, il suo ben noto lavoro sui manicomi realizzato con Gianni Berengo Gardin.
Negli anni Settanta, oltre al teatro, e alla danza, si concentra sul mondo milanese dei cocktail party. Un lavoro indimenticabile per la raffinatezza intrisa di sottile ironia. Sono anche gli anni delle manifestazioni studentesche e delle lotte operaie, che segue con il suo obiettivo. La sua vita procede parallela tra scrittura e fotografia, sempre alla ricerca dei cambiamenti che mutano paesaggi e architetture. La sua grande produzione selezionata in 88 fotografie è in mostra in una cornice eccezionale, l’Appartamento del Principe della Reggia di Colorno (dal 16 ottobre all’8 dicembre) e s’intitola Carla Cerati. Uno sguardo di donna su volti, corpi, paesaggi.
A parlare della personalità di questa donna e artista ad Artslife è la figlia di Carla, Elena Ceratti, photo editor, esperta di fotografia in ambito internazionale, consulente editoriale per diverse agenzie e curatrice.
Ma il vostro nome è Cerati o Ceratti?
Ceratti. I miei si sono tolti una T nel cognome. Andando a fare delle ricerche anagrafiche, abbiamo scoperto che originariamente il cognome voleva due T. Però a quel punto entrambi erano conosciuti con una T sola, così hanno tenuto Cerati come nome d’arte. È stato un problema di errore iniziale all’anagrafe che poi loro hanno adottato. Ormai si firmavano in questo modo e hanno preferito tenere il cognome con una T sola.
Carla Cerati inizia a fotografare per “uscire dalla gabbia”?
Inizia a fotografare alla fine degli anni Cinquanta. Si sentiva molto stretta nel ruolo di moglie e di madre e aveva voglia di guardarsi intorno. Mia madre è sempre stata uno spirito molto libero, un po’ anarchico. Nel mezzo fotografico ha trovato un altro modo di guardare il mondo, di capire come vivevano altri intorno a lei, che cosa succedeva. La famiglia le stava stretta per cui ha deciso di iniziare a fotografare e poi, pian piano, è diventata una professione. Quindi sì, in qualche modo è stato come uscire da una gabbia.
Un esordio da dilettante?
Ha cominciato come dilettante. Mia madre era una sognatrice e un’inventrice, non sapeva nulla della tecnica. Un amico fotografo ha provato a insegnarle degli elementi base, salvo poi dirle: “Non imparerai mai“. Lei aveva risposto: “Io so fare una torta e anche lì ci vogliono tempi, dosaggi, metodo: per cui insegnami!“. E così imparò, da autodidatta e con l’aiuto di qualche amico fotografo. Aveva una volontà molto forte. In più vedeva la fotografia come una liberazione da quelle che riteneva delle gabbie familiari. Nel senso che tradizionalmente la donna in quegli anni doveva sposarsi e mettere su famiglia. Come studente aveva superato l’esame per l’accesso a Brera perché voleva fare la scultrice, ma la famiglia si era opposta. Un ambiente così, in qualche modo non tradizionale, non andava bene per una donna. E allora lei disse: “Va bene allora mi sposo e faccio famiglia!“. Peccato che mio padre vivesse per il lavoro. Così dopo essersi sposata e aver avuto due figli, come imponeva lo status dell’epoca, decise di provare a esprimersi individualmente con la fotografia. La prima macchina fu una Rolleiflex che le regalò suo padre.
La grande curiosità innata le ha aperto il mondo della fotografia?
Lei cominciò con il Teatro. Poi vennero gli anni del boom economico e iniziò la incuriosirla tutto quello che interessava la trasformazione della città. E infatti un corpus di opere molto importante è quello su Milano, che passa dalla costruzione del Pirellone all’inaugurazione dell’area metropolitana Linea M1. E poi il ’68. Trascinata da mio fratello che era un militante del Movimento studentesco, ha seguito tutte le lotte, dalla rivoluzione studentesca alle manifestazioni operaie, fino alle rivendicazioni per il divorzio e per l’aborto. Per poi arrivare invece alla fine degli anni ’70 – ‘80 quando comincia il suo lavoro importante su Mondo Cocktail. Quella che poi sarebbe diventata la Milano da bere.
E in questo lavoro si riconosce una certa ironia.
Molta ironia. Guardava quel mondo come se fosse un po’ allo zoo. Però contemporaneamente rifletteva su se stessa: “io sono qui a fotografare, ma in fondo appartengo anch’io a questo mondo”. Però riuscì a mantenere sempre una doppia visione, del dentro e del fuori. Da lì nasce lo sguardo molto ironico, non sarcastico; perché in fondo si rendeva conto di essere comunque parte di quel mondo. Era invitata ai party, ai cocktail e alle inaugurazioni. Di questi, molti erano legati a un ambiente intellettuale, che lei aveva fortemente frequentato negli anni ‘60 fotografando gli scrittori, alla libreria Einaudi e non solo.
La libreria Einaudi nella galleria di via Manzoni a Milano era in quel periodo uno spot che attraeva tutto il mondo intellettuale dell’epoca. Da Elio Vittorini a Lalla Romano e la stessa Inge Feltrinelli. Tutti personaggi ripresi in Mondo cocktail che passavano dalla libreria Einaudi. Ed è il corpo di lavoro che lei ha documentato in maniera massiccia in quegli anni”.
Un altro aspetto da sottolineare nella fotografia di Carla Cerati sono il rigore e la ricerca formale. Le stesse regole che applica alla scrittura?
Sono due facce della stessa medaglia. E anche il lato estetico. Mia madre era un’amante del bello in assoluto. Che si trattasse di cucirsi una giacca di Armani (aveva preso lezioni di taglio e cucito), un bel tappeto o scrivere un romanzo. Il senso estetico in lei è sempre stato fortissimo.
Il corpo della donna è un altro tema da lei trattato. Esiste una differenza del corpo della donna visto dal punto di vista maschile e da quello femminile?
Secondo me, per lei, era fondamentale allontanarsi da una sguardo che comportasse dell’erotismo diretto, dell’ammicco al sesso o al desiderio. Tanto che realizzò nudi il più realistici possibili, come i tagli a figura intera e poi la scelta di fare queste sorte di sculture di paesaggio. Il corpo della donna vale in quanto scultura, medium artistico. E a questo piaceva accostare vari paesaggi, soprattutto quelli delle Langhe.
Sono ben 88 le fotografie nella mostra curata da Sandro Parmiggiani?
Sì e tutte provenienti da lo CSAC di Parma, a cui mia madre fece una donazione agli inizi per la stima nei confronti di Arturo Carlo Quintavalle.
In questa mostra si trovano degli inediti?
Sicuramente sì. Mentre purtroppo non è presente il corpo di lavori sugli Ospedali psichiatrici, quindi tutta l’esperienza di Basaglia. invece non c’è invece perché gli organizzatori vorrebbero fare una prossima mostra dedicata solo ai manicomi, un lavoro estremamente importante e molto famoso ma in questa mostra volutamente compare per dare uno spazio a un’iniziativa forse l’anno prossimo”.
Cinque fotografie di Mondo Cocktail sono in esposizione invece fino 30 gennaio nella mostra ESSERE UMANE, le grandi fotografe raccontano il mondo ai Musei di San Domenico a Forlì, curata da Walter Guadagnini.