Percepire sé stessi è una sensazione fragile e sfuggevole che si prova in rare situazioni della vita: in attimi di forza, consapevolezza, o in quelli di solitudine e quiete. È come sentire sulla pelle, in un frangente sottile, l’impalpabile tempra del vento che ci punge proprio come l’aria fredda del mattino. In quell’istante realizziamo chi siamo – consideriamo i nostri limiti, le ferite ed i ricordi – e ci guardiamo allo specchio un po’ più fieri. Tale percezione è sintomo di cura, la cura per sé stessi e per gli altri; è infatti la premura per i dettagli, delle cose e delle persone, a mostrarci il riflesso di ciò che siamo.
Nella galleria monzese Villa Contemporanea, che trova luogo nella via più animata della città, è stata allestita una mostra (che si concluderà il 30 ottobre) in cui tale percezione è indagata ed illuminata dai lavori di quattro artiste che hanno saputo rivelare il proprio sé nel modo più autentico. Non a caso, a dar titolo all’esposizione è un neon, che con la sua luce blu ricolora l’ambiente rigorosamente bianco e funge da indizio di come, tramite la percezione di quel senso di sé, la propria strada possa esser da noi vista sotto una nuova luce.
Riflessione interiore è dunque la chiave di lettura della mostra, tant’è, che appena varcata la soglia, il visitatore incrocia il proprio sguardo negli specchi di Vera Pravda, su cui, con la foglia d’alluminio, sono applicate le frasi: Your words not mine e Thank you for sharing. L’occhio poi segue la scia del colore e si posa sui tre acrilici di questa artista che ha fatto della ricerca della verità il centro delle sue creazioni (essendo il suo un nome d’arte). Qui il riflesso delle superfici specchianti lascia il posto alla vaghezza del cielo picchiettato da nuvole bianche, tanto care all’autrice delle opere. Di nuovo, al centro si concretizzano riflessioni visive che conducono lo spettatore non solo a leggere, ma anche a sentirsi “amabile”, “importante” ed “abbastanza”; il cielo è infinito ma Io basto, a cui segue l’immediato interrogativo di chi osserva: io mi basto? Nell’attimo di riflessione, il fruitore si volta, coinvolto nuovamente dall’attrazione per una sfumatura. È quella del neon di Anna Turina, artista abituata a plasmare la materia. La sua ossessione per il ferro, sintomo della sua forza, è stata volutamente accantonata in favore di un materiale fragile, che già per le sue caratteristiche intrinseche, rivela le qualità dell’interiorità. L’artista dona luce al suo Io più profondo studiando il preciso ordine delle parole che compongono il verso Quel grandioso senso di sé: la sintesi di un percorso senza sosta, quello con noi stessi.
Sono ancora i sensi a guidare successivamente lo spettatore verso l’opera che più fra tutte è bagnata dalla luce blu, ma senza che i suoi colori ne risultino modificati. È una scultura antropomorfa, dal volto calvo e dai dolcissimitratti femminili. Ha gli occhi chiusi rigati da lacrime cementizie, ma tali colate drammatiche partono dall’alto, dalla testa. È qui che la bravura dell’artista spagnola Tania Font(per la prima volta in Italia) ha coniugato la delicatezza di un viso con la potenza di una ferita: uno squarcio si apre nella testa causando un lento cedimento. La decostruzione è in atto ed è il sisma dell’interiorità, del fluire del tempo e delle letture univoche (non a caso il titolo della scultura è In Deconstruction XV). Eppure, nella mente della figura restan nitidi dei dettagli, come superstiti tra le macerie di una catastrofe. Sono i rammentidi un luogo caro: la casa d’infanzia, con i disegni di quando era bambina. Tutto cambia e crolla, ma non certi ricordi. Sono forse questi a giocare un ruolo nevralgico nella ricerca della consapevolezza del proprio Io? Che peso ha il passato in questa indagine?
Infine, la sinestesia giunge al suo culmine per mezzo del suono. Una musica accompagna il visitatore nella stanza più piccola, dove si lascia catturare dalla storia inscenata nel video performativo di Claudia Matta, basato sull’azione ripetitiva dell’artista-protagonista di mettersi il rossetto. In attimi imprevedibili compare una mano esterna che – come metafora dei giudizi, o dei pregiudizi -le spinge via il rossetto lasciandole dei segni rossi sul viso, impedendole di truccarsi come e quanto vorrebbe. È dunque un grido potente alla libertà, alla non violenza ed all’autodeterminazione. La canzone che dà il titolo all’opera, Quando la banda passò, funge da fil-rouge dell’azione stessa: rimanda allo stupore del momento in cui passa la banda, in cui tutti si fermano a guardare. Un momento a cui l’artista non vuole partecipare, invitando così il fruitore ad andare avanti, a non sostarsi. Nessuna identità può essere fermata, o limitata e per questo l’artista continua a mettersi il rossetto.
“Quel grandioso senso di sé” è una mostra dal registro poetico, delicato e dirompente, che fa abbracciare il mondo dell’arte a quello della psicologia, sfociando anche in tematiche sempre urgenti: nulla è più necessario del rispetto e dell’amore per sé stessi, grazie a cui segue quello per gli altri.