David Fincher, la polisemia dello sguardo. La raccolta di saggi che racconta il cinema del regista di Fight Club e Zodiac
Per la gioia dei fan di David Fincher è arrivata in libreria una raccolta di saggi che indaga il cinema dell’autore di Fight Club e Mank. Il libro, a cura di Antonio Pettierre, si dà il compito di percorrere il lavoro di Fincher per mettere in luce quegli aspetti che lo rendono, a tutti gli effetti, un prodotto autoriale e si apre con una domanda cruciale (non solo per questo caso): «Come si può definire un autore nel cinema contemporaneo?». David Fincher, la polisemia dello sguardo (Mimesis) affronta così il lavoro del regista andando a individuare le caratteristiche fondative del suo cinema.
Quella di FIncher è un’autorialità che si manifesta in una polisemia che ricorre sia nella forma sia nei contenuti, combinando un’estetica originale di sguardo e di senso. La sua filmografia (da ALIEN³ a Mank, ma già nel suo lavoro nel mondo della pubblicità e dei videoclip musicali) intercetta una società mutevole attraverso una poetica che non si limita a illustrare il mondo, ma lo re-inventa, lo manipola, restituendo una visione iperrealista dell’umano, con focus primario e irrinunciabile sulla natura del male.
Il volume si apre con un’introduzione di Pettierre che fa una prima rapida ricognizione sui diversi elementi che vanno a comporre la coralità semantica dell’universo filmico di Fincher, individuando nella sua biografia e nella formazione le radici da cui sono poi nate quelle “ossessioni” che percorrono con regolarità la sua filmografia. Amante fin da piccolo del cinema, Fincher viene sostenuto dal padre in questa sua passione, a sette anni resta folgorato da Butch Cassidy tanto da ricrearne amatorialmente delle scene con la sua Super8. Sono gli anni della New Hollywood, la sua passione cresce e trova in Francis Ford Coppola, George Lucas, Brian De Palma e Martin Scorsese i maestri che vuole emulare.
Il primo lavoro significativo lo trova presso la ILM di George Lucas, come assistente alla fotografia degli effetti speciali per Il Ritorno dello Jedi; siamo nel 1983, tutto il decennio è segnato dall’esplosione di pubblicità e videoclip che, chiamando a sé anche grandi registi come Sergio Leone e Steven Spielberg, diventano veri e propri corti cinematografici.
Prima del suo debutto sul grande schermo Fincher lavora con intensità in questo settore, è l’epoca del boom di MTV, dirige (tra gli altri) Paula Abdul, Neneh Cherry, George Michael e Madonna: suoi i videoclip di Vogue, che guarda a Looking for Langston di Isaac Julien, Express Yourself che unisce art déco e influenze retrofuturiste, e Bad Girl dove la sua attrazione per il male si esplicita in maniera ormai compiuta e pervasiva. Il primo capitolo del libro, “Nouvelle Vogue” La Origin Story di David Fincher, racconta proprio questi primi anni fondamentali.
Nel 1992 il debutto per il cinema con ALIEN³, è l’inizio di un percorso filmico in cui il male è al centro di ogni narrazione, sia esso individuale o sociale (o conseguenza l’uno dell’altro e viceversa), per Fincher il male nasce nei luoghi più inaspettati, ha una forma volatile che gli permette di infiltrarsi ovunque, anche nelle zone più inaspettate e inaccessibili, dallo spazio profondo a una panic room casalinga: il mondo immortalato dal suo obiettivo è in perenne disgregazione, in disfacimento, il caos e l’instabilità psicofisica sono una costante. Non a caso i serial killer costituiscono il motore dei suoi film – presenti o (fisicamente) assenti, ma sempre centralissimi; da Seven a Zodiac, da The Girl with the Dragon Tattoo fino alla serie TV Netflix Mindhunter.
Nei capitoli successivi, ogni autore prende in esame un film (in ordine cronologico) per approfondire i diversi aspetti (sguardo, i luoghi e i temi) della poetica fincheriana, da Seven – Rappresentazione di una società corrotta dal male fino a L’amore Bugiardo – Gone Girl. Vittime e carnefici nel rapporto di coppia (entrambi a firma di Marcello Perruca). Chiudono il volume due saggi, il primo dedicato al rapporto tra il regista e Netflix, Il curioso caso di David Fincher e Netflix, e il secondo sul suo ultimo film uscito, Mank, The Touch of Welles, tra metatestualità e falsificazione (questi a firma di Giuseppe Gangi).
Il viaggio nell’opera di Fincher risulta così pressoché completo, approfondito nei diversi aspetti formali e tematici, portando, pagina dopo pagina, il lettore nei meandri delle ossessioni e degli orrori che percorrono tutte le sue pellicole. «Fincher – come scrive Pettierre – con la sua opera, riesce a narrare la trasformazione sociale del XX secolo – compiuta principarlmente da ragazzi e giovani donne – riaffermando che il motore di tutto è ancora l’uomo con le insicurezze, i limiti e le emozioni che gli appartengono e a cui appartiene. Tutto ciò lavorando sulla messa in scena maniacale e l’ossessivo controllo di ogni elemento in pre- e post-produzione digitale».