Non ha mai venduto un dipinto in vita sua e vissuto in condizioni disumane. Eppure, ora che è morto, le sue opere valgono circa $100 milioni. É Boris Lurie: pittore, illustratore, scultore, cofondatore del movimento No!art e sopravvissuto ai campi di concentramento.
La sua opera è oggi esposta al Museum of Jewish Heritage – A Living Memorial to the Holocaust di Manhattan. 100 lavori che raccontano la sua arte e insieme la sua tragica e affascinante esistenza. Nothing to Do but Try il titolo della mostra che le raccoglie. Un viaggio doloroso ma carico di suggestioni.
Nato a Leningrado, ora San Pietroburgo, nel 1924 (a soli due anni) si trasferisce a Riga insieme alla sua famiglia. Qui a 16 anni assiste all’occupazione nazista della Lettonia, che lo costringe a vivere nel ghetto della città. Ai familiari va peggio. Sua madre, sua nonna, sua sorella e la sua fidanzata vengono uccise, insieme a 25.000 ebrei, nella foresta di Rumbula.
Boris e il padre sono costretti a lavorare nel campo di concentramento di Salaspils, vicino a Riga, poi a Stutthof fuori Danzica e infine a Buchenwald, in Polonia. Qui lavorano come braccianti fino alla liberazione dei campi. Dopo la guerra Boris emigra negli Stati Uniti, a New York. Qui si dedica immediatamente alla pittura, anche se non aveva una formazione artistica di alcun tipo. Ma quanto c’è così tanto contenuto, la tecnica sfuma in secondo piano.
La sezione centrale di Nothing to Do but to Try – una frase che si trova nelle memorie dell’artista e riguarda proprio l’autodidattismo – include una serie di schizzi disegnati frettolosamente, strappati da taccuini, ricavati da ogni dove. Molti di questi sono stati tenuti privati per la maggior parte della vita dell’artista. Alcuni rendono perfettamente l’idea dell’urgenza pittorica di Lurie, unita ai pochi mezzi che al tempo disponeva. Emblematico in tal senso un disegno realizzato su un tovagliolo macchiato di salsa di soia.
Le immagini, nel complesso, paiono istantanee della memoria adolescenziale dell’artista, interrotta dall’occupazione tedesca. Tra i temi più ricorrenti troviamo braccia allungate in modo disumano, uomini senza volto e alberi dai rami nodosi. Dipinti crudi e violenti. Come Portrait of My Mother Before Shooting. Dal titolo esplicativo, è tra i pezzi centrali dell’esposizione, uno dei molti legati alla famiglia, come Untitled (37 Ludzas Street), l’ultimo indirizzo in cui hanno abitato tutti insieme.
In mostra anche grandi fotografie di quando Lurie visitò Riga nel 1975 e tornò sul luogo del massacro di Rumbula, laddove i suoi familiari vennero assassinati. Le immagini sono un po’ sfuocate, presumibilmente a causa delle sue mani che tremavano mentre camminava in quel luogo spettrale. L’opera più recente in mostra è Axe Series, una collezione di ceppi di legno e vecchi strumenti, probabilmente un riflesso del lavoro che lui e suo padre fecero per sopravvivere nei campi nazisti.
Difatti la ferita della deportazione non si rimarginò mai. Nonostante a New York riuscì, sul finire della sua vita, a mettere insieme una discreta fortuna economica in seguito ad alcuni investimenti azzeccati, non riuscì mai a staccarsi dagli orrori vissuti. Dormiva di giorno e lavorava di notte, tanto che alcuni dei suoi amici si chiedevano se stesse cercando, in qualche modo, di ricreare il modo in cui viveva a Buchenwald. Forse, da lì, non era mai veramente uscito. Della sua passione non riuscì mai a fare un lavoro, tanto che in vita non riuscì a vendere nemmeno un quadro. Una produzione segreta, nata dal suo dolore per ottenere conforto. Oggi, a distanza di quasi un secolo, la sua arte viene finalmente mostrata al pubblico. Un modo per ricordare, per soffrire, per esorcizzare. Un modo per liberare idealmente l’anima di Boris Lurie, ovunque essa sia.