Drive My Car, lo spettacolo umano nel cinema di Ryūsuke Hamaguchi
Haruki Murakami. Murakami non ha mai fatto mistero della sua passione per le pagine della letteratura americana. Non stupisce così il fatto che la sua quinta raccolta di racconti, Uomini senza donne (2014), riprenda proprio il titolo di un’altra raccolta estremamente importante: quella di Ernest Hemingway del 1946. Nonostante le ovvie diversità poetiche dei due lavori, queste opere si possono affiancare per un tema comune: l’amore degli uomini per le donne perdute.
Ryūsuke Hamaguchi parte proprio da qui con il suo Drive my car. Prendere un grosso narratore come Murakami e cercare di trasformarne le parole in immagini è un’impresa ardua e che merita rispetto. Lee Chang-dong lo ha fatto con Burning (2018), in un’eccellente e felicissima sintesi di cinema e letteratura.
La paura che Drive My Car (presentato in Concorso a Cannes) fosse una velleitaria opera troppo lunga e irrispettosa era tanta. Per fortuna non è stato così.
I vivi tormentati dai morti. “Coloro che sopravvivono continuano a pensare ai morti”. Hamaguchi è un autore interessante fin da Happīawā (2015), suo film d’esordio della durata simpatica di 5 ore. La dilatazione temporale sembra piacergli non poco e infatti, una trentina di pagine di Murakami, diventano 179 minuti di film.
Premio per miglior sceneggiatura a Cannes il film “gonfia” il racconto di Murakami portandolo in territori indicati dal racconto ma non approfonditi. C’è un uomo, Yusuke, autore teatrale e attore che ha una macchina rossa, una moglie e una figlia molto piccola. Dopo mezz’ora di film gli rimane solo la macchina e due ossessioni atroci che lo portano a credere di essere colpevole della morte della moglie e dei rispettivi tradimenti ai danni di lui che lei gli nascondeva.
Dopo anni cambia città per allestire un dramma di Cechov e, per cavilli burocratici, gli viene affidata un’autista taciturna. Misaki ha l’età che avrebbe avuto sua figlia se fosse ancora in vita e lui quella di suo padre sparito: scatta subito qualcosa tra i due.
Col tempo iniziano a scoprire le proprie solitudini e si confidano le proprie storie. Anche Misaki come Yusuke si sente responsabile della morte di una persona a lei cara (sua madre). Nel frattempo Yusuke lavora con un giovane attore ex amante di suo moglie. L’ossessione e la paura di non aver mai capito sua moglie lo portano a voler passare del tempo con lui, per studiarlo e forse, anche, per punirlo in qualche modo.
Sul finale Misaki e Yusuke vanno a trovare la casa bruciata della prima e si domandano se davvero sono colpevoli delle morti dei loro cari. La risposta, ovviamente, non c’è.
Lo spettacolo umano. Domande e domande si susseguono in un film molto silenzioso e, paradossalmente, molto parlato. Parlato alla Shakespeare, alla Bergman, alla Tarkovskij. Lunghi monologhi lucidi e ben scritti che i personaggi enunciano come se fossero in teatro; Hamaguchi scrive dei personaggi complessi e affascinanti.
Il cinema di Hamaguchi viene dal documentario, dallo sguardo per la realtà, dalla quotidianità. Un cinema che ha imparato per bene la lezione classica di Ozu.
Nei suoi film si sente il peso e l’attenzione per le emozioni umane, il loro trasformarsi lentamente e in modo elegante. Il montaggio trattiene il più possibile la realtà che le immagini catturano e dilata i “normali” tempi cinematografici. Sembra che Hamaguchi voglia farci pensare mentre guardiamo il film, voglia darci il tempo di capire meglio ciò che stiamo vedendo.
Questo è un film che, da un piccolo spunto come il racconto di Murakami, ha saputo approfondire aspetti e temi in maniera matura e “maiuscola” per dirla alla Fabio D’Innocenzo.
Drive My Car allestisce uno spettacolo acuto e brillante, un viaggio morbido e confortevole come la guida di Misaki.