È uscito il nuovo album dei Deep Purple dal titolo Turning to Crime. È il primo disco interamente di cover di altri artisti della band hard rock inglese. Non molti ricordano che i Purple nascono alla fine degli anni ’60 come un gruppo che costella i primi tre dischi proprio di cover, spesso rilette in chiave progressive. Una delle loro più grandi hit, sempre presente tra gli encores nei concerti dei giorni nostri, è un brano di quegli anni: Hush di Joe South.
L’idea di realizzare un album di canzoni di altri artisti è derivata dall’impossibilità di andare in tour a causa della pandemia. Che fare quindi se non tornare in studio? I Deep Purple hanno pubblicato lo scorso anno un disco di canzone inedite quindi non c’è da stupirsi se le idee per brani nuovi latitassero e si sia optato per le cover. Alla produzione prosegue la collaborazione con Bob Ezrin che ha riportato la band ai fasti commerciali degli anni giovanili piazzando i tre album in cui ha lavorato al numero uno in svariati paesi in tutto il mondo. La rinascita dal punto di vista delle vendite, iniziata con Now What?! del 2012, è poi proseguita con lo stupefacente Infinite del 2017 e col recente Whoosh! del 2020. Ezrin, già dietro alla console per la produzione del concept album Berlin di Lou Reed, The Wall dei Pink Floyd e i dischi di maggior successo di Alice Cooper tra gli altri, si è rivelato la persona giusta per collaborare con la band in una fase matura; un professionista con un curriculum e conoscenze tali da guadagnarsi il rispetto di musicisti virtuosi e potersi permettere di dare suggerimenti artistici o pretendere il rifacimento di un assolo o di un passaggio perché ritenuti dozzinali.
Perché il titolo Turning to Crime e la copertina con le foto segnaletiche di Gillan e soci? Rubare le canzoni è un crimine, come sottolineato nel videoclip realizzato per il singolo Oh Well dei Fleetwood Mac; nel filmato i cinque preparano il colpo che prevede la sottrazione ai legittimi proprietari di strumenti, musiche e testi in una scena a metà tra un gangster movie ambientato negli anni ’40 e Le iene di Tarantino, salvo poi rincorrere in auto un giovane Bob Dylan che fugge a piedi col proprio taccuino coi testi in una citazione del video di Karma Police dei Radiohead. Perché Dylan? Perché nella tracklist del disco non ci sono esattamente le canzoni che uno si potrebbe aspettare dai Deep Purple: ce ne sono alcune molto distanti dal loro hard rock e altre sconosciute o quasi.
Possiamo quindi escludere la bieca mossa commerciale a vantaggio del semplice desiderio di suonare le canzoni che ascoltavano da ragazzi sulla scia di Blue and Lonesome dei Rolling Stones di qualche anno addietro. Si spazia dal blues, al rock’n roll alla psichedelia, dai Cream passando per i Love fino agli Yardbirds e non c’è da stupirsi troppo. Dopo aver cambiato a inizio carriera cantante e bassista per costituire la formazione più famosa della band, nota tra i fans come Mark 2, i Purple hanno prima realizzato un concerto per gruppo e orchestra in tre atti composto dal compianto organista Jon Lord, salvo poi decidere di seguire le orme dei Led Zeppelin che avevano nel frattempo inventato l’hard rock. Quello che li ha distinti dalla band di Page e Plant è stato tuttavia che, mentre nella loro fase iniziale gli stessi declinavano il genere come un hard blues, i Purple mischiavano le diverse influenze musicali da cui provenivano i singoli membri che oltre al blues comprendevano anche la musica classica e il rock anni ’50, oltre all’amore per i grandi chitarristi: Ritchie Blackmore è stato per anni considerato il più credibile erede di Jimi Hendrix. Jon Lord all’Hammond d’altra parte era protagonista quanto il chitarrista e questa era un’alta grande novità perché, al netto dei Doors, il tastierista era ancora considerato un membro minore delle band e spesso suonava dietro le quinte e non appariva nella formazione ufficiale. E le cose nei Dee Purple non sono certo cambiate ai giorni nostri: le tastiere, suonate da una ventina d’anni da Don Airey, rivestono anzi forse oggi un ruolo ancora più centrale da quando un problema di artrite a una mano ha costretto il chitarrista Steve Morse a reinventare da zero il proprio modo di suonare lo strumento mantenendo il caratteristico suono ma diventando più essenziale.
Quello che possiamo dire di queste cover è che si sente che sono suonate dai Deep Purple anche se non sono canzoni loro ed è un complimento quando si parla di una reinterpretazione. Gli assoli e i passaggi di chitarra e tastiera sono modificati secondo il proprio stile e caratteristico interplay tra gli strumenti; non si è proprio resistito a una piccola autocitazione nel secondo brano Rockin’ Pneumonia di Huey Piano Smith inserendo per un istante la sequenza di note di Smoke on the Water suonata al pianoforte. La sezione ritmica è un altro dei marchi di fabbrica dei Purple con Ian Paice che abbina invidiabile precisione a fantasiosità nei passaggi e Roger Glover che supporta il tutto col suo basso granitico dimostrando di peccare di eccessiva umiltà quando si definisce l’unico non virtuoso della band; tra l’altro, per la prima volta in un album, il bassista si diletta anche a duettare con Gillan alla voce nel brano Battle of New Orleans di Lonnie Donegan e Johnny Horton: una canzone che i due eseguivano in gioventù nel loro gruppo Episode Six in cui si sono fatti notare proprio dai Deep Purple che cercavano innesti freschi per trovare una nuova direzione musicale. Last but not least, Ian Gillan che riesce a cantare canzoni di qualsiasi genere con disinvoltura e carisma. Passati i 75 anni non gioca a fare il giovane a colpi di chirurgia plastica e capelli tinti: accetta la sua età e ha smesso da tempo di scrivere testi su ragazze bollenti e automobili veloci; sfrutta la propria classe e la fortuna di aver un timbro vocale che, seppure molto cambiato rispetto agli anni giovanili, risulta molto caldo e piacevole e un’estensione vocale che gli concede ancora un paio dei suo caratteristici acuti.