120 opere (tra reperti antichi e opere contemporanee) di 35 artisti compongono Terra Sacra, mostra curata da Flavio Arensi per la Mole di Ancona. Divisa in cinque sezioni, l’esposizione ragiona sull’esistenza umana e sulle modalità che ha di rapportarsi con se stessa e la natura che la circonda. Dal 27 novembre 2021 all’8 maggio 2022.
“Ma la cicatrice quando passa?” “La cicatrice non passa. É come una medaglia che nessuno ti può portare via”, dice Zerocalcare (in mostra con 5 tavole) in Strappare lungo i bordi, la serie realizzata dal noto fumettista che sta spopolando su Netflix. Da qui, dalla constatazione che certi traumi finiscono per sgretolare, qualcosa, per sempre, vogliamo partire per raccontare la mostra Terra Sacra. Un’esposizione che nasce dalla macerie del terremoto che colpì le Marche cinque anni fa.
Le perdite che ne sono conseguite rimangono ancora visibili. Non solo tra edifici e case in macerie, ma soprattutto negli animi lacerati di coloro a cui le scosse hanno frantumato l’esistenza. Momento di perdita materiale, ma anche interiore, il terremoto in Terra Sacra diviene un espediente per ampliare il campo del dolore e coglierne le sfumature più profonde. Quelle che sorpassano la tragica contingenza per affrontare una dimensione esistenziale. E se nessuno attraversa la vita allo stesso modo, è pur vero che alcuni suoi tratti ci uniscono in un viaggio che è anche un travaglio, ma non per questo non degno di essere esperito. “C’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce”. Lo cantava Leonard Cohen, lo vediamo nelle 120 opere esposte in mostra.
In esposizione trovano così spazio, fianco a fianco, alcune delle opere storiche del territorio salvate dal terremoto e le indagini contemporanee di 35 artisti tra cui Quayola, Titina Maselli, Flavio Favelli, Leonardo Cremonini e Zerocalcare. Molti dei manufatti appartenenti al nostro patrimonio culturale sono infatti state affidate, nelle settimane successive al terremoto, alla Mole di Ancona affinché le preservasse e ne avviasse il processo di restauro. Molte di queste sono tuttora conservate nei depositi della struttura vanvitelliana; alcune sono esposte, avvolte nel cellophane che si fa sudario attorno a statue e dipinti religiosi. Una scelta forte (e azzeccata) che suscita immediatamente il sentimento di perdita, più intenso proprio perché potenzialmente reversibile. Potenzialità però negata, limitata da un velo che copre la vista e apre lo squarcio sul liminale territorio dell’abbandono, dell’oblio. Accanto a loro dipinti, sculture, fotografie e installazioni contemporanee guadagnano e restituiscono suggestioni, aprendo un’inedita costellazione di riferimenti e connessioni. Passato e presente uniti nel raccontare il travaglio di uno spirito chiamato a ritrovare contatto con se stesso, con gli altri, con la natura.
Questa ritrovata spinta relazionale si articola muovendosi su due binari particolari e precisi. Il primo è un presupposto metodologico e contenutistico che influenza radicalmente la mostra, deviandola dalla tentazione documentaristica e abbracciando un discorso ideale, astratto e quindi, probabilmente, più profondo. Il fatto è questo: non ci sono riferimenti visivi al terremoto, esiti di edifici abbattuti, macerie di case, resti di città distrutte. Il nesso storico è evaporato. Il dramma ha già affondato la realtà, ora tocca farci i conti nell’impalpabilità dell’animo. Per questo il crollo diviene metafora di un precipitare esistenziale difficile da definire, da vivere nella tragedia che comporta, da percepire tramite le suggestioni dell’arte. Il secondo è una sua diretta conseguenza. Per sbrogliare (o quantomeno provare a sbrogliare) tale matassa, la trasversalità è uno strumento imprescindibile. Le opere dialogano fra loro quasi dimentiche degli artisti che le hanno prodotte. Non conta lo loro storia, i loro intenti originari, i confini entro i quali la storiografia artistica li ha circondati. Quel che è importante è il propagarsi di senso che intrinsecamente possiedono, infinitamente capace di allargarsi e incrociare suggestioni che, pensate distanti, si scoprono improvvisamente vicine.
Che la conversazione sia intrattenere con qualcosa di più grande lo capiamo subito, dal Laocoon #26 – progettato a computer e reso su polistirolo – di Quayola. L’artista recupera il mito dell’uomo avvinghiato in una natura pericolosa, addirittura assassina. L’analisi del conflitto su cui fondiamo il nostro rapporto con l’ambiente conduce a una sintesi inevitabile, ma non per questo virtuosa. Anzi, molto spesso l’uomo è avanzato per appropriazioni, forse continua a farlo con crescente insistenza. Per questo delimitare la nostra presenza in relazione con gli spazi naturali, ma anche urbani, è fondamentale per comprendere il ruolo e l’orizzonte a cui dobbiamo guardare. La sezione Pittura indaga le molteplici modalità con cui ci interfacciamo al territorio come luogo di vita. Dalla granitica placidità di Donne addormentate al sole di Leonardo Cremonini all’Autostrada pop-surreale di Titina Maselli, dall’Anversa miniaturizzata di Renato Birolli all’inedita riflessione di Maurizio Cannavacciulo che esplora lidi dove il senso si dissolve come schiuma attratta dalla onde.
Del resto la natura è all’apparenza così semplice, data e definita, che dobbiamo sforzarci di ricordare che niente è più innaturale dell’ovvio (grazie Sherlock). Lo sanno bene nella Taranta, terra dove resiste una propensione ritualistica, ancora più affascinante perché in dissolvenza. A fissarla in immagine ci ha pensato il fotografo Franco Pinna, che accompagnò l’antropologo Ernesto de Martino nel Sud Italia alla ricerca di una conoscenza slegata dalla scienza, dove le trame del sacro sono intessute dal sentimento magico e non vi è traduzione scritta e orale che possa restituire i crismi di una forma di sapere tanto viscerale quanto incomunicabile. La ritroviamo, almeno parzialmente, nell’immaginazione artistica della tarantola di Pino Pascali fotografata da Claudio Abate, nei giochi di specchi di Paolo Icaro e negli elementi di luci di Piero Fogliati.
Lo scenario naturale è inoltre teatro della relazione tra uomini, dei confini arbitrari che traccia e dei conflitti che innesca. Le gabbie, fisiche e psicologiche, che l’uomo impone ai suoi simili sono ben esemplificate da Flavio Favelli, che ha applicato alcune decorazioni afghane, solitamente usate per i tappeti destinate alle preghiere musulmane, a un container utilizzato dai profughi per scappare dalle zone di guerra. Altrettando forte la protesta notturna delle donne di Teheran, la cui fotografia, scattata da Pietro Masturzo, ha vinto il World Press Photo 2010. Qui un gruppo di donne sale sul tetto di un edificio per cantare il proprio inno di libertà e ribellione verso un regime che le vuole annichilite nel silenzio. “Cosa ci è capitato per essere quello che siamo?” si chiedeva nel suo diario Etty Hillesum, scrittrice olandese ebrea vittima dell’Olocausto (interessanti, sul tema, le opere di un altro reduce, Zoran Music). L’intera mostra prova a rispondere a questo domanda, ora immensamente filosofica e un momento dopo terribilmente pratica. Su questo pendolo oscilla l’esposizione, disseminando per il Magazzino Tabacchi, sala adibita all’evento, scorci di armonia estetica e proficua riflessione.
Tra questi si cita:
- Le 112 piccole fotografie di Silvia Camporesi (Atlas Italia), che raccontano con sguardo poetico una mappa dell’Italia che sta svanendo. Dietro di esse, disposte in una griglia che lascia intravedere oltre, si staglia il dipinto celato di una Madonna. Passato che accoglie un presente sempre più sbiadito.
- La crisi esistenziale affrontata da Zerocalcare nelle cinque tavole in mostra, appartenenti a Macerie prime e Macerie prima sei mesi dopo. Il dolore e l’incertezza sublimati in un linguaggio semplice ma niente affatto impoverito. Il suo mood spietato e ironico ci ricorda che ogni fase dell’esistenza ha i suoi drammi e spesso finiamo per collezionarli senza riuscire mai veramente a risolverli.
- Il bosco galleggiante e sonoro (Concerto per natura morta) di Roberto Pugliese. La sezione più scenografica della mostra è un tuffo immersivo nella natura che, nonostante sia stata rimossa dal suo ambiente, conserva irriducibile la capacità di rinnovarsi e adattarsi, trovando modalità di espressione quando ormai pensavamo potesse offrire nient’altro che resa e silenzio.
- Le esplorazioni derelitte dell’Associazione Ascosi Lasciti (Jesi), collettivo artistico che cerca case in stato di abbandono per entrarci ed esportarne fotograficamente il residuo di vita che contengono. Alcune delle loro opere sono esposte nel cortile della Mole; all’esterno, laddove il gruppo trova ispirazione e poetico compimento.
- La testimonianza della delicata e commovente azione di Gina Pane. Il suo primo atto vivo (1968), come raccontano le fotografie in mostra, fu quello di spostare alcune pietre esposte a nord e ricoperte di muschio – “che non riceveranno mai i raggi del sole, quindi calore” – e porle a sud.
Ed è forse in quest’ultima opera che Terra Sacra si svela per quello che, in ultima istanza, è. Un universo di esperienze, domande, problemi, dubbi, incertezze, interpretazioni che compiono un lungo giro sfiorando arte, scienza, filosofia, religione e politica per poi tornare all’essenza del nostro animo ferito e stanco, ma mai vinto: la semplicità e la gentilezza.