Passo Orientale è uno studio d’artista polimorfo sito a Milano, un ecosistema animato da personalità di formazione differente e aperto a uno scambio che si estende ben oltre le proprie mura.
In occasione del progetto Racconti, inserito all’interno del programma di Walk In Studio 2021, abbiamo dialogato con Emil Cottino, Carla Giaccio Darias, Emma Moriconi e Alejandra Varela Perera, attivatori dello studio d’artista.
Da quanto tempo vi trovate a co-abitare questo spazio?
Potete raccontarmi, brevemente, dei vostri sfaccettati background e percorsi artistici?
EM: Io sono californiana e ho frequentato, alla UCLA, un bachelors della facoltà di World Arts and Cultures, focalizzato su museologia, antropologia, interculturalismo e attivismo. Sono giunta a Milano due anni fa per frequentare un biennio più pratico (Arti Visive e Studi Curatoriali in NABA) cercando uno studio dove sviluppare la mia ricerca con persone nuove; tramite Carla ho trovato Passo Orientale e sono qui da maggio 2021.
EC: Io sono arrivato in studio l’anno scorso ma conoscevo già gli altri artisti, nutrendo un reciproco interesse rispetto ai nostri lavori e ricerche. Incontrai innanzitutto Andrea Noviello e Alessandro Di Lorenzo, che prima di me erano in questo studio con Alejandra e Carla. Qui inizialmente eravamo io, Alejandra, Carla e un amico – di Alejandra e Carla – Federico Arani, poi è andato via Federico ed è entrata Emma.
Per il resto, ho intrapreso una formazione in Arti Visive solo recentemente, arrivato a Milano. Qui ho dapprima seguito una masterclass in sound design alla NABA, lavorando intanto come musicista in teatro. Precedentemente lavoravo, nel teatro e nel cinema, come bozzettista per costumi e scenografie. Tutto questo percorso mi è servito a comprendere che la realtà non è un atto unico, ma si compie sedimentando gesti, che danno la misura di un lavoro costante, dove l’opera è un momento all’interno di un operare che si radica sempre nella realtà, in un’azione che è presenza fisica nello spazio. Lo studio è un luogo in cui poter condensare questi sedimenti, queste presenze fisiche, ma non il luogo da cui queste provengono, che è sempre il mondo. Mi piace molto il nome “Passo Orientale”, perché ripenso a Henri Michaux quando parla dell’Oriente non come luogo o concetto di luogo geograficamente determinato, ma come ragione dell’orientarsi: del trovare l’Oriente, inteso come centro magnetico. Rimanda alla ricerca di qualcosa.
AVP: Io sono stata la prima ad arrivare qui. Al triennio ho studiato Pittura e Arti Visive alla NABA e mi sono poi spostata due anni in Brasile e poi in Messico, per ritornare qui a Milano a settembre dell’anno scorso, dove, tramite vecchi contatti, ho cercato uno spazio per lavorare: avevo deciso di intraprendere la carriera di pittrice. Mi hanno presentato l’artista Giorgio Olbi, che utilizzava questo studio più come spazio espositivo che come laboratorio per concepire nuovi lavori. Lui mi ha permesso di tenere lo studio ma essendo molto grande ho cercato altre persone con cui condividerlo – perché mi ero innamorata della sua luce, di tutto quanto poteva offrirmi. Ho dunque contattato Carla, che conoscevo tramite Federico Arani, e siamo entrate in questo studio. Milano poi è una città che mi consente di guadagnare da questo lavoro e di potermici concentrare senza troppe distrazioni.
CGD: Io sono in studio da novembre. Lavorare in uno spazio di questa portata, condividendolo con tanti artisti, possiede una complessità che si traduce anche poi nel lavoro, cambia le modalità individuali di stare in un luogo, e ho un forte desiderio di mettere in comune processi, pensieri, dialoghi.
Precedentemente ho studiato a Roma, in un liceo artistico con indirizzo architettura, e dopo il diploma mi sono spostata a Milano, dove anch’io ho frequentato il triennio in Pittura e Arti Visive in NABA. L’accademia è stata una fondamentale rete di connessione, mi ha permesso di conoscere persone che stimo e frequento quotidianamente.
Avete uno studio in condivisione e lo avete aperto per accogliere ospiti esterni in occasione dell’edizione 2021 di Walk In Studio: quanto conta per voi lo scambio reciproco? Come si è evoluta la vostra personale ricerca a seguito dell’incontro con gli altri artisti?
EM: Tramite Walk In Studio volevamo dar spazio a nuove idee e relazioni e in questa occasione è nata, da Vinicius [Vallorani], una bellissima proposta che stiamo portando avanti: creare momenti di dibattito critico.
EC: Questi incontri sono fondamentali per costruire un pensiero che credo debba risondare percorsi e ritrovare vocaboli che emergono attorno al lavoro stesso, non premettendoli. L’analisi dell’opera è infatti parte dell’opera stessa, strumento di rilettura di quanto è in atto.
Walk In Studio è stata l’occasione di cimentarsi insieme in un’operazione che mettesse in gioco tante dinamiche. Innanzitutto, ciò che è sedimentato qui, perché la grande differenza tra artisti residenti e artisti ospiti sta nel fare i conti con tutto quanto popola lo studio, e aprirlo significa darne accesso alle operazioni in atto, che non isolano l’opera da ciò che la forgia – contesto, storia, genetica. È stata l’occasione di disarcionare l’equilibrio dello studio, forse affaticato da un depositarsi dei segni, da un accumularsi di oggetti trovati, scelti, portati qui, che di sicuro hanno condizionato lo spazio per tutti. In questo riordinamento delle cose è stato importante capire le necessità individuali rispetto a un luogo di lavoro, le dinamiche, le soglie. Tutto questo non poteva essere guidato dal principio del perimetro, ma da un ascolto reciproco. Da allora le invasioni di campo sono state costanti, portando anche a scontri, fraintendimenti, disattenzioni… a dinamiche che rispondono a una comunità. Certo, l’operare non inizia né finisce in questo luogo, ma qui si condensa: c’è sempre un’energia che resta nello spazio e nei lavori. Le mie operazioni nascono in un rapporto con le cose e il mondo; nello specifico del festival il mio lavoro è nato in risposta a gesti che sono stati portati all’interno dello spazio, inducendo a riconsiderarne la complessità.
AVP: Aver invitato Andrea e Vinicius in studio ha creato una vera e propria sinergia, nonostante la differenza intrinseca di ciascun operare, ha portato anima e corpo allo spazio, costruendo tra noi un dialogo arricchente, nutrito di feedback reciproci sui lavori, e un’amicizia.
CGD: Penso che la contaminazione diventi a un certo punto inevitabile: nel confronto con gli altri rientrano di continuo immaginari diversi sul proprio lavoro. E al di là delle persone con me in studio, lo scambio è continuo con altri amici artisti. Mi piace pensare a questo spazio come a un luogo aperto alla possibilità di invitare qualcuno, dove partecipare a esperienze non unicamente mie.
A seguito dello scambio fruttuoso instauratosi grazie all’apertura del vostro studio ad artisti esterni, avete intenzione di proseguire su questa linea, estendendo, in futuro, l’invito anche ad altri ? Se sì, avreste già in mente qualche nome?
AVP: Per ora no, stiamo lavorando noi quattro su tutto lo spazio. Magari in futuro.
EC: In occasione di un prossimo Walk In Studio, potrebbe capitare l’occasione. Bisogna costruire dinamiche di incontro differenti, che rispondano a logiche non meccaniche.
CGD: Mi piacerebbe molto rendere questo luogo uno spazio di accoglienza non solo di amici, creare un senso comunitario e attivare un dialogo serio rispetto a una ricerca, dando un tempo diverso di sguardo sui lavori.
Se potremmo intendere Passo Orientale come un corpo contenitore, uno spazio di gestazione in continua riconfigurazione, che muta identità a seconda dei rapporti che al proprio interno si danno ristrutturandone pesi ed equilibri, come declinate, nella vostra singolare poetica e progettualità, il concetto di “corpo”?
AVP: Per me corpo è l’essere umano. La mia pittura è costituita attorno a ritratti, incontri, posizioni politiche, storie, è abitata da personaggi.
EM: Io non ritraggo il corpo come lo conosciamo, ma penso che nelle mie opere esista in più declinazioni, a cominciare dalla superficie – della pittura, della tela, del tessuto – che con i colori crea un corpo. La mia ricerca indaga il corpo di esseri viventi e non viventi e ciò che mi sta aiutando a sviluppare i miei lavori è l’incontro con il punto di vista di altre persone: anche qui entra in gioco il corpo.
EC: Mi chiedo se questa condizione di corpo non sia ciò che rende l’opera opera e non oggetto. L’espressione “corpo umano” specifica solo una possibilità di corpo, o meglio, la partecipazione anche dell’umano alla condizione di corpo. Ritengo che questa condizione condivisa sia il territorio comune fra l’umano e le opere. È una condizione misteriosa, una domanda pertinente all’arte in quanto permette un dialogo fra sostanze che si fanno corpo e si relazionano. L’operare artistico è questo continuo atto di varcare la soglia, di portare le cose – e portarsi – nella condizione di corpi.
CGD: È molto complesso dirlo. Nella mia pratica mi interessano le possibilità che possono costruirsi quando si entra in contatto con un corpo – mentale, astratto, fisico. Penso che ci siano delle energie che questi corpi emanano, vibrazioni che cerco di ascoltare. Sicuramente, nel mio lavoro il corpo continua a rientrare e fuoriuscire da un diverso medium: pittura, disegno e scultura sono intercambiabili dal momento che ciò che mi muove è uno sguardo su qualcosa che alla fine mi appartiene. Per realizzare i miei lavori parto sempre da un archivio – un’immagine, qualcosa di visto, trovato, incontrato – rimetto sempre in gioco una memoria rispetto a qualcosa.
Volete presentarmi un’opera con cui intrattenete un legame speciale?
AVP: Mi viene subito in mente un dipinto 150x100cm, realizzato con pastelli a olio su una tela che era rimasta bucata, dunque inutilizzata. È diventata il mio diario, ci disegnavo la mia vita e quello che mi accadeva nei due/tre mesi che sono rimasta a Città del Messico, riempiendola di dettagli. In quel periodo stavo realizzando una personale e mi trovai a ricondividere la quotidianità con la mia famiglia. La tela è ora disposta all’ingresso della mia casa natia.
EM: Io ti parlerei di un’opera che sto realizzando su iuta, che segna l’inizio di un nuovo percorso, di un approccio molto più immediato al lavoro. Utilizzo materiali grezzi e differenti per indagare la superficie della pittura: mi piace molto vedere come reagisce al mio intervento. E la superficie è un corpo, per me.
EC: Mi viene difficile parlare di un’opera in sé, isolata dal resto: questa condizione di corpo cui accennavo per me rappresenta veramente una ragione di movimento, dove non c’è una vera tregua, perché le cose sono in atto, sempre. Sono nato a Napoli e a Napoli tutto questo è evidente: Benjamin ne parla come di una città porosa, refrattaria a qualsiasi rigidità, ordinamento, promessa di definizione e definitività.
Ci sono comunque tanti fantasmi che mi innamorano e mi abitano, grandissimi artisti e serie di lavori che propongono un preciso desiderio di mondo. Per esempio, la mostra di Chen Zhen in HangarBicocca o l’operazione di Andrea per Walk In Studio: la complessità e la densità che le abitano sono per me uno stimolo grande.
CGD: Tutte [ride]. Dovendone scegliere una, un dipinto realizzato in residenza a Palazzo Monti, che sento veramente come punto di riferimento nella mia ricerca, perché penso abbia una sua indipendenza rispetto a me, rispetto a una giustificazione che posso dare della mia progettualità. Mi ha mosso internamente, facendomi desiderare ogni giorno di scoprirla, e racchiude tutto quanto mi ha mossa finora: un’attenzione sulla memoria, sul corpo e su tutte le possibilità che possono nascere attorno a questa esperienza.
Se doveste scegliere un corpo esterno cui rapportarvi nel processo creativo di realizzazione di una nuova opera, quale sarebbe questo corpo? Che cosa vi interesserebbe indagare nella scelta di avviare questa specifica relazione?
AVP: Ultimamente ho sentito il bisogno – forse perché mi mancano – di dipingere due dei miei fratelli. Non lavorando però mai dal vivo ma sempre tramite il ricordo, trasfigurando l’immagine reale delle persone, temo di non riconoscerli a lavoro ultimato – ciò mi causerebbe malinconia o nervosismo. Vorrei realizzarne una serie, con dipinti di grande dimensione.
CGD: In questo momento ho diversi progetti in mente, mi sto relazionando con delle forme che ho indagato in pittura per tradurle in scultura e viceversa.
EM: Io per la tesi sto cercando di realizzare un lavoro fra il teorico e il pratico, che rifletta su come l’arte può sensibilizzare su tematiche legate all’ecologia e al modo di rapportarsi a un mondo che verte al collasso. Mi interessa approfondire il modo in cui percepiamo il mondo, in cui impattiamo su di esso e questo impatta su di noi, analizzandolo soprattutto a livello microscopico: mi interessa questa “geologia intima”, una poetica del mondo che costruiamo e che ci costruisce in un tempo lunghissimo.
EC: Mi è difficile lavorare per tematiche, premettere un tema. Per esempio, il lavoro che hai visto l’altro giorno, nasce in un rapporto che non saprei neanche definire temporalmente. Questo corpo, emergendo da una lunghissima relazione, si è sottratto all’immagine. La sfida per me è lavorare con il mondo nella misura in cui si fa vita, con qualcosa che non è confinabile, riducibile a immagine, per riportarlo nel mondo con chiarezza e in modo non prevedibile, anche quando si lavora con le immagini – un quadro, un film, non sono vita? Operare implica continuare un lavoro di qualcosa che nasce a livello molecolare e raggiunge poi l’operare di un corpo che si muove nello spazio – un organismo complesso che opera delle scelte o un oggetto che impone delle relazioni. Nel cimentarsi con le cose, si reagisce a vicenda, l’opera non è una produzione ma il risultato di un incontro, un momento di densità del rapporto continuo con il mondo, un tempo che si fa spazio.
Questo contenuto è stato realizzato da Deborah Maggiolo per Forme Uniche.
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