Da Antonello da Messina a Leonardo da Vinci, da Rembrandt a Franz Hals, da Kerry James-Marshall a Jordan Casteel. Un sorriso non è mai solo un sorriso. E per questo deve essere dosato.
Fin dalle elementari ogni bambino sviluppa l’idea che il museo sia un luogo che mette soggezione. Forse per la solennità che la sua architettura incute; magari per il carico di storia che racchiude; o ancora per il rituale cerimonioso che si accompagna alla visita: il percorso tracciato, le soste davanti alle opere, gli approfondimenti non sempre piacevoli, il contegno silenzioso da mantenere. Visitare un museo, insomma, è un’esperienza che invita a un certo contegno. Un’aura di serietà aleggia per le sale e i corridoi. Il divertimento sembra esserne escluso. Ovviamente non è così: la storia dell’arte, se ben raccontata, può essere molto coinvolgente. Ma del resto, a guardare la maggior parte dei ritratti conservati nei musei c’è ben poco da stare allegri. Quanti dei soggetti rappresentati sono immortalati in un sorriso? Veramente pochi. Ma perché?
Probabilmente, come spesso accade, è soprattutto una questione culturale. Oggi intendiamo il sorriso come un’espressione di amicizia, apertura, disponibilità. Ridere è sinonimo di buonumore, di una persona allegra e propensa a rapportarsi con il prossimo. Ma d’altra parte, il sorriso, è una reazione che releghiamo a momenti fugaci e leggeri – un selfie, una foto di gruppo, un’immagine profilo – mentre per le occasioni destinate a durare preferiamo un’espressione più seriosa. A maggior ragione nel passato, quando le occasioni di farsi ritrarre erano rare e impegnative, i soggetti preferivano posare in modo più serioso. Inoltre il sorriso, come spesso viene descritto in letteratura, è magnetico. Attira gli sguardi e catalizza le attenzioni. E un ricco e importante aristocratico, determinato a manifestare il proprio potere e il proprio status sociale, non sarebbe stato affatto contento di decentrare il focus dalla sua grandezza alla frivolezza di un sorriso.
Potremmo riassumere dicendo che gli individui che avevano le possibilità economiche di farsi ritrarre non volevano che passasse l’idea che fossero persone di poco spessore, dedite al riso e alle inezie. Erano persone serie, impegnate in faccende serie e interessate solo alle questioni serie. E le questioni serie sono tante. Tra queste, però, non rientrava lavarsi i denti. Di conseguenza, anche con tutta la buona disponibilità del soggetto e l’abilità del pittore, sarebbe stato complesso restituire sorrisi smaglianti. Più facile che il viso rimanesse sporcato dalla vista dei denti, piuttosto che impreziosito.
A questo fattore dobbiamo aggiungere un altro aspetto pratico. Ritrarre era un lavoro lungo e faticoso, tanto per il pittore quanto per il soggetto. Come chiedere a quest’ultimo – vestito di tutto punto, acconciato alla perfezione, inserito in un scenografia studiata, chiamato a rimanere immobile per ore, senza aria condizionata né comfort di supporto – di sfoderare un sorriso disteso e coinvolgente? Difficile.
Inoltre, rimbalzando indietro su una questione culturale, dobbiamo nuovamente rintracciare, almeno fino al 1600, una netta predominanza di figure religiose o nobiliare all’interno della ritrattistica. Soggetti interessati (o obbligati?) a dare un’immagine di sé estremamente rispettabile e lontana da qualsiasi tipo di fraintendimento. Ridere, infatti, era una caratteristica tipica dei guasconi perditempo da balera. Quelli con le gote arrossate, il bicchiere alzato e lo strumento musicale che ha visto più boccali che note suonate.
Nel XVII secolo in Europa, gli aristocratici avevano infatti deciso che mostrare i denti, in pubblico e nell’arte, era un’espressione oscena riservata alle classi inferiori, agli ubriachi e agli attori teatrali. Tanto che alcuni pittori olandesi – quali Jan Steen, Franz Hals, Judith Leyster o Gerrit van Honthorst – si specializzarono nella rappresentazione di queste scene di vita. Autentiche, ma distanti dalla società rispettabile. E in questi ritratti i sorrisi, ampi e incontrollabili, fioccavano insieme alle maldicenze ad essi associate. Il binomio sorriso-alcol era diventato un lasciapassare simbolico verso un’interpretazione licenziosa e birichina della scena rappresentata.
The Merry Fiddler (1623) di Van Honthorst e The Concert (ca. 1623) di Leyster presentano entrambi ampi sorrisi e perpetuano l’associazione rinascimentale ilarità-disonore. Difatti in queste immagini i toni devianti dell’ubriachezza e del sesso sono espliciti: il violinista nel quadro di Van Honthorst versa una coppa di vino allo spettatore; le sue guance rubiconde mostrano un’ebbrezza incontrollabile. I tre allegri giovani attori di The Concert, nel frattempo, sembrano sull’orlo di un ménage-à-trois.
Un loro illustre antenato potrebbe essere Caravaggio. Strumenti musicali sono sparsi sul pavimento nel suo celebre Triumphant Eros (1602), allegoria dell’amore e della bellezza adolescenziale. Il giovane Eros, nudo, con le frecce in mano, sorride salacemente allo spettatore. La sua espressione malvagia era così insolita che la critica del tempo era arrivata a intenderla “come una celebrazione della passione omosessuale tumescente“, scrive Jeeves.
Dunque sembrava inevitabile: se ritrai un soggetto sorridente c’è sicuramente un secondo fine, quasi mai edificante. Quantomeno si iscriveva l’opera nel reame dell’ambiguo. Basta guardare a uno dei ritratti più celebri di sempre: la Gioconda. Sull’opera di Leonardo si rincorrono tuttora interpretazioni e contro-interpretazioni proprio a partire da quel suo sorriso stretto e difficilmente inquadrabile. Quando a essere ritratte erano donne d’élite, il sorriso pareva dover necessariamente suggerire una timida ma seducente aura di disponibilità sessuale. É stato così per Ritratto di Isabella Brant (ca. 1620–25) di Peter Paul Rubens; per Doña Isabel de Porcel di Francisco de Goya (prima del 1805); e per Madame Jacques-Louis Leblanc (1823) di Jean-Auguste-Dominique Ingres.
Forse solo Antonello da Messina è stato uno dei pochi a inserire costantemente il sorriso nelle sue opere senza che se fraintendesse l’intenzione. Messina faceva sorridere i sui soggetti con l’obiettivo di far emergere parte del loro spirito. Un guizzo intimo appartenente a loro soli, oltre che un dettaglio particolarmente realistico. Ne è un esempio il suo Ritratto di giovane uomo del 1470 circa.
Un sorriso, nella storia dell’arte, raramente sembra poter essere un semplice sorriso. Una dietrologia sembra aleggiare nell’aria ogni qual volta le labbra si increspano e i denti brillano della cavità orale. Anche nella contemporaneità, dove pur ci si potrebbe prendere più libertà, è raro vedere sorridere un soggetto. O quantomeno di un sorriso sincero. Che sia un retaggio o una nuova scelta ponderato, si sorride nelle fotografie ma non nei ritratti pittorici.
A Portrait of the Artist as a Shadow of His Former Self (1980) di Kerry James Marshall presenta una resa quasi completamente nera di un soggetto dall’ampio sorriso, dai denti bianchissimi e allungato in modo inquietante da un orecchio all’altro. Il lavoro fa riferimento al romanzo di Ralph Ellison Invisible Man e contemporaneamente si rifà a caricature razziste e immagini di menestrelli dalla faccia nera. Un espediente per una critica sociale e per una sottotrama sinistra piuttosto che un segno di gioia.
Anche Yue Minjun ironizza sulla società contemporanea attraverso esagerati autoritratti dove rievoca pose iconiche del canone occidentale. E i suoi soggetti hanno sempre sorrisi maniacali. Nascoste dietro maschere congelate in sorrisi inquietanti si celano pesanti critiche politiche e commenti sociali.
Al contrario, un accenno di sorriso innocente e sincero lo ritroviamo nei ritratti di Jordan Casteel. La pittrice americana è solita immortalare la gente di New York nella sua quotidianità: in casa, in metro, per strada. Molti di loro sorridono provando a mostrare la parte migliore di sé. Un caso veramente raro nella storia dell’arte. Dove sta il trucco? Prima di restituirli su tela, Casteel fotografa sempre i suoi soggetti con la macchina fotografica. Dunque tutto rimane confermato: si può sorridere davanti a un obiettivo, ma guai a farlo per un pennello.