Dall’8 ottobre 2021 al 23 gennaio 2022 David Hockney è in mostra al Bozar di Bruxelles. In esposizione tutte le tappe principali della carriera del pittore inglese, compreso un nucleo di 116 opere proveniente dalla sua ultima serie: The Arrival of Spring, Normandy, 2020.
É vero, l’arte è tale soprattutto quando innova. Tanto che a volte pensiamo che nuovo sia sempre meglio. Per fortuna, è un inganno da cui non ci lasciamo sedurre; teniamo bene a mente gli andirivieni storici e le derive avanguardistiche, le quali non sempre valicano i confini in modo convincente. Forse è proprio questa la discriminante: il modo, più che il cosa. La modalità, lo stile, lo spirito personale, piuttosto che il contenuto. Perché, alla fine, diciamocelo, il mondo che ci è dato questo è. L’estro dell’artista risiede nel ricombinarlo e mostrarcelo come fosse inedito. Lo diceva anche Marcel Proust, in una delle sue righe più famose: “Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale“. Alla luce di questa considerazione, gli artisti che da sempre preferisco sono quelli che hanno preso il mondo costituito, nella sua essenziale banalità, e lo hanno reinventato con sguardo unico, spogliandolo dalla coltre del conosciuto. Tra questi c’è sicuramente Giorgio Morandi, ma in tempi più recenti anche Nicolas Party.
Cosa li accumuna? Dal mio punto di vista, il cimentarsi nei grandi classici della tradizione artistica – ritratto, paesaggio, natura morta – interpretandoli in maniera tanto particolare da farti dimenticare di essere di fronte a un tema ricorrente. Lo trovo un virtuosismo estremo, un gesto accondiscendente e sprezzante al tempo stesso. Come a dire: non mi serve riprodurre qualcosa di assurdo quando a essere assurdo è il mio stile. Nella schiera degli artisti dalle intuizioni così folli da riuscire a rendere avanguardistica la tradizione c’è anche David Hockney.
L’ho realizzato una volta di più visitando la personale che il Bozar di Bruxelles gli ha dedicato trent’anni dopo l’ultima volta. In realtà sono due mostre, ma scorrono una dopo l’altra senza soluzione di continuità. La prima – Works from the Tate Collection, 1954-2017 – è un compendio della sua estrema versatilità ed eterogeneità di stile e medium, analizzata lungo l’intera sua carriera. La seconda – The Arrival of Spring, Normandy, 2020 – è un colorato affondo sull’ultima parte della sua produzione, dove combina il desiderio paesaggistico con la tecnologia iPad con cui restituisce gli scenari della Normandia. Un sunto perfetto di quanto detto in precedenza.
Eppure tutto era iniziato nel più classico dei modi: una scuola d’arte, la Bradford School of Art. Sono gli anni ’50, Hockney è uno studente di disegno. Uno studente che rapidamente coglie la potenzialità della sua mano e del suo pensiero, prendendo residenza nella terra di mezzo tra la figurazione e l’astrazione. Qui dà vita a ritratti dove emergono i temi delle relazioni umane, dell’amore e dell’omosessualità. Lo fa senza mai ripetersi, moltiplicando soggetti e stili. Flirta con la Pop-Art (Tea Painting in an Illusionistic Style), sperimenta soluzioni distorte (The First Marriage (A Marriage of Styles I)). Il sesso e la passione come comune denominatore di una ricerca senza confini.
Tanto che, quando nei primi anni sessanta si muove verso New York, le suggestioni non cambiano. Rimangono cupe, inquiete, confuse, libere. Arte e vita si mischiano in una rappresentazione semiautobiografica della città. Un lisergico ammasso di edifici di cui Hockney sembra vedere solo l’aspetto erotico. Stanze, letti, uomini, il Chrysler Building in un’eloquente versione fallica. Un novello William Hogarth, che concede all’arte le sue tormentate confessioni esistenziali.
Nel ’64, a Los Angeles, c’è tutt’altra luce. Ai grattacieli che fanno ombra si sostituiscono gli ampi spazi californiani dove la luce sembra arrivare ovunque, anche nei quadri di Hockey. Qui ci sono corpi nudi, lucenti nella quotidianità oziosa dei quartieri benestanti. Man in Shower in Beverly Hills è un caso emblematico, come iconiche sono tutti i dipinti ritraenti una delle sue celebri piscine. L’esplosività coloristica è compressa in linee semplici ed essenziali. Magnetica l’atmosfera sospesa, sognanti gli scenari che suggerisce. Gli uomini emergono dalle piscine e lo stile di Hockney riemerge dal caos astratto. Si indirizza verso uno spiccato naturalismo, strada che percorrerà con sempre più insistenza da qui in poi.
Negli ultimi ’60 l’artista acquista una 35mm Pentax. Può catturare la scena, acquisire tempo, impiegarlo per il processo di mimesi. Così per tutti gli anni ’70 si dedica a una riproduzione virtuosa della realtà, scansionata in ogni sua particella di luce. Resiste l’attaccamento alla figura umana, ampliata però nelle sue caratteristiche fisiche. Sono diversi i ritratti di coppie di amici o committenti. Come Mr. and Mrs. Clark and Percy, dove i due soggetti sono colti nell’interno della loro abitazione, perfettamente inseriti nelle sue trame estetiche. Pur non seguendo una linea pedissequamente iperrealista, le figure in queste opere guadagnano sostanza dalle dimensioni quasi in scala, incredibilmente umane, fin troppo presenti. Una spinta, questa di Hockney a forzare i limiti tra realtà e rappresentazione, che arriverà poi a ribaltare totalmente prospettive di ispirazione quasi naïf (Pembroke Studio with Blue Chairs and Lamp, 1984). Proprio lo studio, se vogliamo, può essere un altro tema moderno a cui il pittore si allaccia prima di rimodularlo. Pensiamo per esempio a Matisse e il suo The Red Studio o Gustave Courbet con The Painter’s Studio. Per Hockney sedersi al tavolo dei grandi con velleità di riscoperta è quasi un’ossessione.
Perciò il percorso anarchico-tradizionalista, alimentato da un approccio innovativo del retaggio classico, è segnato: il lido ultimo (almeno per ora) è l’orizzonte, il paesaggio. Ci arriva nel modo più impensabile: con l’iPad, dopo un soggiorno in Normandia di due anni. Quel che trova è un proliferare rigoglioso di piante, sole, alberi, corsi d’acqua, abitazioni, terre coltivate, pioggia, cieli tersi e rugiada brillante. Sono in tutto 116 i dipinti di questa serie, esposti su due pareti parallele, pienissimi di micro-paesaggi capaci di dialogare tra loro, di prendersi nonostante le lievi differenze, di andare a comporre un mosaico coerente ma mai ripetitivo. Un’ossessiva variazione sul tema, un esacerbare la realtà fino a rimuovere la crosta che la rende consueta. Come Monet e la cattedrale, come Morandi e le sue bottiglie. Altri rimandi, altre connessioni. La storia che ritorna ed entra in un iPad cambiando natura. Niente paura: è un altro mondo, l’ennesimo.