Nel 2021 svettano, fuori classifica, Woody Allen, Clint Eastwood e Steven Spielberg. Ci sono anche due italiani nella top ten
– Quanto zucchero?
– Due, grazie.
– Lo prendi dolce!
– Lo prendo ‘caffè’. Come a Napoli, dove te lo servono già zuccherato. L’altro si chiama ‘caffè amaro’.
– Non ti scaldare già adesso. Sciorinami la tua Top Ten cinematografica di questo semi-disgraziato 2021, con le sale chiuse fino a tutto aprile, poi aperte a mezza capienza, e soltanto da ottobre tornate a funzionare a pieno regime.
– ‘Pieno regime’? Ma se a Natale erano semivuote… Non considererei ormai la sala come unico ‘teatro del cinema’. Ma il discorso ci porterebbe lontano. Inizio dai fuori classifica?
– Vai pure, ho detto.
– Quest’anno sono tre i titoli che per meriti specialissimi e caratteristiche peculiari tra il cult e il colpo di fulmine occupano un posto a parte nella lista, e pertanto inclassificabili: il malinconico e dreyeriano Rifkin’s Festival di Woody Allen; il raccontino per ragazzi di Clint Eastwood, Cry Macho, esile finché si vuole ma addirittura icastico nel rappresentare il cinema come ultima tappa terrena prima della morte, dove andare a rintanarsi per eternizzarsi in un controluce filtrato dalle serrande abbassate di un saloon, che annulli per sempre le rughe e ogni altro segno del tempo; e il West Side Story di Steven Spielberg, caso unico di ‘remake’ perfettamente complementare all’opera originale, ombra ciascuno dell’altra in un continuo rimando di memoria reciproca che redime entrambe dall’invecchiamento, in un sofisticatissimo gioco cinematografico che è pura arte concettuale. Troppo difficile per le masse, forse, che infatti hanno disertato il film, tanto in patria come da noi…
– E fin qui ci siamo. Scaliamo adesso la classifica, dal decimo posto fino alla vetta.
– In decima posizione ho inserito Luca, ennesimo capolavoro Pixar dell’italiano Enrico Casarosa: invece di una ‘fiaba’, è l’avventura animata di tre ragazzini sulla costiera ligure alle prese con i primi elementi di un’educazione sentimentale che, quale che sarà, li farà molto soffrire e gli irrobustirà schiena e cuore. Nel finale, l’addio più straziante mai visto al cinema in questo secolo. Al nono posto il director’s cut del Justice League di Zack Snyder, che così rimestato diventa un lungo e solenne poema epico imbevuto di lirismo crepuscolare: nessuna sorpresa per noi Snyderiani della prima ora, mentre i numerosi haters stavolta hanno chinato il capo e dovuto ricredersi.
– Ti fermo subito, prima di continuare: dimmi se nella tua decina dei migliori c’è almeno un italiano, dopo un’annata particolarmente felice per il cinema tricolore…
– Come no, ce ne sono addirittura due. Uno eccolo, all’ottavo posto: Tre piani di Nanni Moretti. So che molti hanno storto il naso (a Cannes i francesi lo hanno rifiutato in massa), eppure ci ho sentito soffiare dentro il vento nuovo della voglia di cambiare rotta, di cercare uno stile diverso… In fondo è questo che il pubblico e i fans di ogni epoca non hanno mai perdonato ai loro beniamini: non restare uguali a come li vogliono loro. Io invece, che vado dove mi portano gli autori e non pretendo che mi diano retta, mi sono lasciato trascinare dal coraggio di maneggiare eventi, cose e persone con passi e toni stranianti e astratti, e chissenefrega delle infedeltà al libro, che non ho nemmeno letto. Se avessi voluto un compitino ben fatto non mi sarei certo rivolto a Nanni Moretti.
– Sei il solito bastian contrario…
– Dici? Ho riscontrato invece, insieme al mare dei delusi, un discreto manipolo di sostenitori del film… Andiamo avanti: settimo, Un Eroe, di un Asghar Farahdi tornato in formissima, dopo l’infelice incidente del suo film spagnolo.
– Ma è quello di ‘Una separazione’?
– Esattamente. Il gigante del cinema iraniano. I suoi non sono film, sono fiumi in piena. Nel mondo, è certamente l’autore dotato della più densa carica di umanità che si conosca. Finirà garantito nella cinquina degli Oscar stranieri. Sesto, l’ultimo capolavoro di Paul Schrader, regista americano ormai ai margini dello Star System, dopo i grandi successi pop degli anni ’80 (pensa ad ‘American Gigolo’), e che perciò può oggi lavorare in assoluta libertà. Più o meno non sbaglia mai un colpo, ma stavolta, coi soldi di Scorsese produttore, ha realizzato una bomba: The Card Counter (il titolo italiano è ridicolo e insensato, quindi non lo cito neppure). L’America sta attraversando uno dei momenti più miserevoli della sua storia recente, e quando il cinema arriva a mostrartelo con una simile incandescenza capisci come mai anche noi, provincie dell’Impero, potremmo risentirne pesantemente.
– Siamo a metà.
– Sì sì, mi sbrigo. Tanto è facile. Quinto posto per lo stupefacente France, di Bruno Dumont, dove la Francia del titolo (rimasto fortunatamente uguale nella versione italiana) è una anchorwoman della televisione, figa spaziale e dotata di un quoziente intellettivo di parecchio sopra la media, che tenta di difendere un’identità e una libertà d’espressione messe a dura prova dal dilagare dei media, dall’idiozia delle nuove culture, fiorite dalle escrescenze di una cattiva coscienza dell’Occidente ripulita a colpi sommari di cancellino.
– Sento che sta per arrivare l’altro titolo italiano…
– Non ancora. Non ancora. Quarto è un film indiano, prodotto da Alfonso Cuarón (quello di ‘Gravity’ e ‘Roma’), uscito su Netflix in primavera, tra le sorprese più belle dell’anno: The disciple, di Chaitanya Tamhane. Terapeutico come una seduta di yoga: ti ipnotizza con lo sciabordio ondivago dei suoi raga fino ad obnubilarti la percezione, unico metodo per scampare alle lusinghe della vita che promette, illude, fomenta ambizioni, per poi bruciarle come palloncini di carta. Una lezione di vita proveniente dalla cultura di un altro continente, declinata con modalità distanti dai nostrani mélo, che contengono esse stesse l’antidoto per inchinarsi al destino e accettare serenamente la sconfitta.
– Attenzione: eccoci al podio. Chi è il terzo classificato?
– Memoria di Apichatpong Weerasethakul, già Palma d’oro a Cannes nel 2010 con ‘Lo zio Bonmee che ricorda le sue vite precedenti’. Anche Memoria era in concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove sfoggiava uno tra i manifesti più belli di tutta la Croisette. Da noi non è ancora uscito, ma io lo infilo lo stesso nella mia classifica: è di una bellezza spaventosa. In Occidente abbiamo completamente perso il senso della materialità dell’anima e del corpo, e da opere come questa, almeno quelli di noi che tengono aperti certi ricettori, si lasciano irretire dalla suggestione di una vita intesa come fenomeno naturale (e non spirituale) perfettamente innestata nei flussi spaziotemporali del Cosmo…
– Roba tosta, vedo. Secondo posto.
– Anche al secondo posto c’è un film che non è uscito in Italia. È di Lav Diaz, il filippino che vinse qualche anno fa il Leone d’oro a Venezia, e che trovò difficoltà enormi ad essere distribuito regolarmente in sala. I suoi non sono film per chi considera il cinema un intrattenimento, per quanto intelligente e di qualità. La loro durata e il loro passo ponderato richiedono un’attenzione speciale come può riservargli solo chi ha del cinema l’idea di un rito, di una cerimonia, di un’esperienza psicosensoriale di rara intensità. La differenza che corre tra chi legge Tolstoi e Thomas Mann, e chi legge i libri della classifica dei più venduti. Il titolo è La storia di Ha: racconta le vicende di un ventriloquo e del pupazzo che anima con il suo braccio, sullo sfondo di drammatici eventi storici nelle Filippine degli anni ’50 dell’altro secolo, sferzate dalle piogge tropicali. Mi fermo qui, tanto non lo avrà visto nessuno.
– Ma… e l’altro italiano? Siamo arrivati al primo posto… Non mi dire che…
– Esatto. Il podio più alto è tutto de Il buco, di Michelangelo Frammartino, che alla Mostra di Venezia ha preso in settembre il Premio Speciale della Giuria. E nel passarteli in rassegna mi accorgo quanto i tre titoli in cima a questa classifica, che non ha alcuna pretesa se non quella di testimoniare il mio personalissimo e opinabile parere sull’annata cinematografica in chiusura, abbiano come denominatore comune un’idea della vita umana un po’ pagana e un po’ animistica, consustanziata di energie terrestri in armonia con l’Universo, ma in contesti concreti, finalmente depurati dalle pastoie del New Age: una specie di nuova fede nella Terra per nascondersi nel suo mistero, piuttosto che pretendere di spiegarlo. Gli speleologi che negli anni ’60 si spinsero in una grotta del Pollino, tra Basilicata e Calabria (a quei tempi si credeva fosse la più profonda del mondo) sembrano ripercorrere in profondità quello stesso percorso di ascesa che dalle viscere del pianeta specularmente compiono le nostre anime per intraprendere il proprio cammino vitale all’interno di un corpo mortale…
– Una classifica esoterica, quasi. Non credi di aver esagerato, quest’anno, con tutto questo cinema d’autore che pochi vedono, se non nessuno?
– Io questo vedo, e questo metto in classifica.
– Ok, ok, non insisto. Ci si ritrova qui dopodomani per la Top Flop… Vuoi un altro caffè?