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Indisciplina + Elisa Schiavina

Elisa Schiavina, Serpe d'acqua, marina come la vita, tapina come la morte. Tecnica mista su tela, 170x100 - Courtesy l’artista Elisa Schiavina, Serpe d'acqua, marina come la vita, tapina come la morte. Tecnica mista su tela, 170x100 - Courtesy l’artista
Elisa Schiavina, Serpe d'acqua, marina come la vita, tapina come la morte. Tecnica mista su tela, 170x100 - Courtesy l’artista
Elisa Schiavina, Serpe d’acqua, marina come la vita, tapina come la morte. Tecnica mista su tela, 170×100 – Courtesy l’artista
Elisa Schiavina nasce a Pavia nel 1992 e dopo una laurea in Psicologia presso l’Università degli Studi della sua città si trasferisce a Milano per unire la propria ricerca al lavoro laboratoriale ed educativo rivolto a diverse fasce d’età, in contesti privati e pubblici (Ospedale San Matteo, Pavia; Liceo Artistico Statale Boccioni, Milano).

Com’è nato il tuo rapporto con l’arte visiva e come lo poni rispetto il tuo triennio in Psicologia? I tuoi studi in Pedagogia, Neurofisiologia e Filosofia – in particolare riferiti al pensiero di Lacan – hanno influito sulla tua pratica artistica?

Il mio rapporto con l’arte visiva nasce come sorta di fascinazione naturale. Quando ero piccola mi esprimevo disegnando scene fantastiche, disegnando, in sostanza, quello che amavo: la mia famiglia, i miei animali preferiti, i personaggi dei cartoni animati. Ora lo faccio ugualmente, lasciando intervenire nel processo un atto di volontà via via più consapevole, teso a fissare il microscopico e il macroscopico; il pensiero più lento, rivolto ai fenomeni grandi, e quello veloce, a scatti, rivolto alle cose piccole che attraversano il nostro campo visivo ma necessitano di più attenzione per essere fissate.

Ho avuto la fortuna di conoscere l’artista Loredana Cerveglieri alle elementari: la maestra di italiano era sua amica; la prima volta in cui mi sono trovata a dipingere su tela fu su una grande tela dipinta insieme a tutti i miei compagni di classe, e conservo di quel momento un ricordo abbastanza vivido. Ho sempre avuto una curiosità specialmente visiva, in particolar modo rispetto alle espressioni dei volti e alla forma delle cose, che si riflette anche nel mio modo di leggere e scrivere: quando leggo immagino immediatamente quello che mi suggeriscono le parole e le immagini che mi creo hanno sempre i colori forti di quello che mi circonda, che è quello che circonda i miie simili che abitano le città; quando scrivo utilizzo parole-immagini, di cui mi interessa anche il suono.

Dopo il liceo classico mi sono iscritta alla facoltà di psicologia perché mi interessava lo studio del comportamento umano e il percorso storico necessario a renderlo attendibile, al contempo mi affascina l’inesattezza di questa scienza, il suo essere continuamente soggetta a sperimentazione, il suo essere costantemente immersa nella realtà di ciò che accade, nei fatti contemporanei. Quello che sicuramente conservo di un certo tipo di approccio analitico è la volontà di guardare in profondità le cose per poi cercare di trarne una visione di insieme. La pedagogia mi ha incuriosito dato che mi interessa osservare la crescita degli individui, il cambiamento a essa connesso, le trasformazioni. Mi ha dato modo di capire quanto non appena fa il suo ingresso al mondo l’essere umano è partecipe di un processo di percezione e relazione, costante, continuo. La neurofisiologia non l’ho studiata benissimo a dire il vero, ma mi sono sempre interessate le immagini incredibili delle reti neurali, delle porzioni di cervello, ho sempre avuto più che altro un interesse anatomico rivolto a questo.

Lacan è un grande psicanalista e per studiarlo davvero ci vorrebbe una vita intera. Mi appassiona leggerlo e studiarlo e comprenderlo, per quanto mi sia possibile; credo che il suo modo di intendere l’inconscio come una sorta di grammatica che si dispiega nel linguaggio, nella parola, e il desiderio come perno, leva dell’agito delle singole persone produca intuizioni utili nell’approccio alla complessità umana.

Elisa Schiavina, Io piena di grazia alla festa. Acrilico su tela, 40x50 - Courtesy l’artista
Elisa Schiavina, Io piena di grazia alla festa. Acrilico su tela, 40×50 – Courtesy l’artista

Come inserisci la ricerca nel tuo lavoro, come la intendi, come la sviluppi? Quanto è importante la lente attraverso cui leggi l’arte, data dai tuoi studi?

Intendo la ricerca come una costante e naturalissima necessità di osservazione di quello che mi circonda, partendo dalle cose (organiche e inorganiche) e arrivando ai fenomeni. Chiaramente il mio sguardo è partecipe di quello che accade nei miei tempi, nonostante ami metterlo spesso in relazione con le memorie della mia infanzia, si tratta sempre di un processo che ha a che vedere con “l’immagazzinamento” visivo e la successiva elaborazione di quanto osservato tramite il suo mescolamento con fatti personali, lontani o recenti. Lo studio delle diverse discipline connesse alla psicologia mi ha permesso di calibrare la lente con la quale guardo la realtà. Come esempio, nel mio percepire mi pare impossibile trovare una oggettività, so che quanto vedo è modellato dalla mia persona.

Uso la fotografia “spicciola”, fatta molto spesso tramite il cellulare – perché è sempre con me, perché è comodo – e la intendo come volontà di prendere appunti, è uno strumento  che mi serve per fissare velocemente qualcos’altro che utilizzerò in un momento successivo; il disegno serve invece per fissare le immagini mentali; la pittura è poi tutto, nel senso che mi rapporto a quello che osservo come se fossero i miei occhi a dipingerlo, e in un certo senso è così, dato che quello che decido di osservare mentre lo esamino è il risultato della mia persona, delle mie esperienze, di quello che cattura il mio schema percettivo. Ciò che accomuna le creature che emergono dal mio lavoro è l’essere fluide, non radicate, in un continuo svilupparsi di forma e movimento: il gatto è sempre lo stesso gatto, il serpente è sempre lo stesso serpente, ma sono sempre diversi.

Ultimamente mi rassicura racchiudere questi animali guida nella dimensione del Vaso di Pandora, volevo però un vaso contemporaneo, ironico, che avesse odore di infanzia in una maniera quasi teatrale, perciò ho trovato come espediente l’Happy Meal, che è un po’ una casa, un po’ un contenitore, un po’ pezzo di carne talvolta rosea e rossa e bianca di vita, talvolta violacea, aranciata e grigiastra perché putrescente.

Osservazione, colore, forma, inconscio, desiderio, incubi, infanzia, sono molte le parole che mi vengono in mente per riassumere il tuo lavoro: tu come lo racconteresti?

Trovo siano importanti nel mio lavoro aspetti legati alla morte, intesa come minimo istante tra la fine di un ciclo generativo e l’inizio di un altro, e alla vita, intesa come generatività totale dell’organico, capace di vincere almeno quantitativamente la morte all’interno dell’esperienza umana. Nel parlare di ciò mi servo a volte di animali-divinità, immagino di avere loro poteri e capacità, mi riapproprio in un certo senso di qualcosa di spirituale, di teso alla domanda sulla vita che contiene la crescita, il gioco, il sesso, la morte, la percezione della divinità, la coabitazione con altre specie e la coabitazione con i colori accesi dell’high tech.

La dimensione inconscia è inevitabilmente presente in quello che faccio, come lo è per tutti; forse i miei studi e qualche anno di analisi lacaniana mi hanno reso più consapevole della simbologia sottesa ad alcune immagini. Mi interessano l’età infantile e l’età di passaggio tra questa fase e quella adulta. La dimensione ludica è presente di fatto in questi momenti dell’esistenza anche se in modo diverso; potrei dire che interpello il gioco, ci scherzo e lo mescolo con il mio immaginario di giovane adulta, in cui la sessualità è molto presente perché ancora legata alla scoperta, dunque al gioco, che è desiderio di scoperta e scoperta.

Parlo di gioco e di divertimento, di “play”, di “game”.

Mi piace inserire nel mio lavoro elementi legati all’era digitale in cui siamo immersi. Nel rapportarmi alla rappresentazione della vegetazione, degli elementi naturali in sé, mi piace renderli a volte come ce li presentano gli schermi dei dispositivi tecnologici, non so se ci riesco, ma mi piace.

Elisa Schiavina, Gattone alla festa ,mangia il gelato. Acrilico su tela, 40x50 - Courtesy l’artista
Elisa Schiavina, Gattone alla festa ,mangia il gelato. Acrilico su tela, 40×50 – Courtesy l’artista

Quanto è importante la commistione di linguaggi nel tuo lavoro?

Unisco linguaggi diversi per dire sempre la stessa cosa. Da un paio di anni ho iniziato ad approcciarmi alla scultura, in un primo momento per capire come rappresentare alcuni volumi che non riuscivo ad affrontare con la bidimensionalità, per superare una sorta di frustrazione, poi mi ha divertito il fatto di muovermi in un territorio che non conoscevo, la possibilità di sperimentare vari materiali, per poi capire che anche la scultura è pittura, una pittura espansa attorno alla quale girare intorno.

Mi diverte la possibilità di toccare e muovere gli animali che rappresento, soprattutto di muoverli, e questa possibilità me la dà la scultura, mi permette di inserirli in diversi contesti; è come se creassi dei nuovi giocattoli frutto di diverse mie immagini mentali, da porre poi in relazione al resto; come se volessi invitare a leggere la vita con una lente ironica che spesso, per fortuna, riesco ad avere.

Le tue creature esistono tra le specie che vogliono farsi grammatica vegetale o grammatica mostruosa di un inconscio che viene concepito e indagato dall’uomo, che ne è poi spaventato. Cosa vorresti che il fruitore percepisse? Vorresti delle risposte da noi o è un continuo dubbio?

Delle mie creature mi interessano estetica del colore e ambiente, e mi piace l’idea di inserire nell’ambiente sempre vari input, stuzzicare le memorie di chi guarda, senza arrivare davvero a un punto chiaro e univoco. Ogni elemento per me ha un significato ma non voglio condizionare troppo gli altri nella lettura del mio lavoro, voglio piuttosto fornire un’esperienza che abbia a che vedere con il domandarsi. Mi piacerebbe entrare nell’immaginario degli altri attraverso ciò che rappresento, dare la possibilità all’altro di compiere una azione visiva e di memoria insieme, far immaginare a chi guarda di essere il serpente, di essere il gatto, di essere il topo, di essere me.

Se arte contemporanea significa abbandono delle τέχνη [téchne], allora il termine non è più sufficiente perché, oggi, la maggior parte degli artisti non abbandona la tecnica, non l’ha mai conosciuta. Ti senti inclusa in questa definizione?

Hai deciso di intraprendere un percorso presso l’Accademia di Brera solo dopo una formazione da autodidatta, avvenuta frequentando lo studio di Silvia Argiolas: non conoscevi dettagliatamente la tecnica eppure l’hai indagata in molti modi.

 È una domanda molto difficile, la tecnica credo sia legata al fare pratico, ogni artista credo sintetizzi la tecnica appresa in un metodo. Credo che la curiosità in vita porti a voler sapere e quindi, a volte, si ha voglia di conoscere anche la tecnica. La mia curiosità nei confronti della pittura mi ha portato in modo naturale a confrontarmi con altri miei simili ed è così che mi piace apprendere la tecnica. Forse non mi sento inclusa in questa definizione.

Silvia Argiolas mi ha insegnato e continua a insegnarmi molto; quest’anno ho deciso di studiare in Accademia per dedicare ancora più tempo a questo, per stratificare ulteriormente, imparando altre cose da altri esseri umani.

Elisa Schiavina, Maschera gatto. Installazione con pelle di serpente. Creta sintetica, acrilico, 30x20cm - Courtesy l’artista
Elisa Schiavina, Maschera gatto. Installazione con pelle di serpente. Creta sintetica, acrilico, 30x20cm – Courtesy l’artista

Questo contenuto è stato realizzato da Manuela Piccolo per Forme Uniche.

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