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La qualità della memoria, un dialogo con Francesco Marilungo

Stuporosa, Francesco Marilungo - Courtesy l'artista, ph Loïc Petit Stuporosa, Francesco Marilungo - Courtesy l'artista, ph Loïc Petit
Stuporosa, Francesco Marilungo - Courtesy l'artista, ph Loïc Petit
Stuporosa, Francesco Marilungo – Courtesy l’artista, ph Loïc Petit
Con una formazione inconsueta e un approccio scientifico, Francesco Marilungo si presenta nuovamente al mondo teatrale con il suo ultimo progetto Stuporosa, affrontando in modo trasversale temi quali la morte, il rito e la comunità, dando forma a un linguaggio a metà strada fra ricerca antropologica e arti performative. 

Com’è nata la tua ricerca e quali sono gli aspetti che ti hanno spinto alla realizzazione di Stuporosa

Durante il periodo del covid lessi Morte e pianto rituale, un saggio di Ernesto de Martino, dove viene presa in esame l’esigenza umana di superare lo ‘scandalo’ della morte mediante il ricorso a determinate pratiche rituali, prime tra tutte, l’istituto del lamento funebre. Lo studioso napoletano si sofferma sulla figura della prefica, su quella figura femminile che soleva piangere ai funerali in modo codificato – figura che mi ha sempre affascinato. Difatti sono sempre stato attratto dal folklore e dalle tradizioni. La combinazione di questo mio interesse unito alla condizione pandemica – momento in cui siamo stati messi di fronte alla morte in modo feroce – mi ha spinto a pensare a un lavoro del genere. 

Decisi di indagare il tema della morte e del lutto attraverso la figura della lamentatrice e, una volta approvato il progetto,  con la compagnia abbiamo organizzato diverse spedizioni in Sud Italia alla ricerca di testimonianze e tradizioni che potessero ampliare la nostra conoscenza sul rito della lamentazione: non solo libri, ma soprattutto persone che hanno avuto modo di conoscere prefiche, e addirittura (anche se più raro) donne che hanno incarnato questo ruolo.

Stuporosa, Francesco Marilungo - Courtesy l'artista, ph Loïc Petit
Stuporosa, Francesco Marilungo – Courtesy l’artista, ph Loïc Petit

Come mai questo interesse per il lutto? 

Nel 2020 non abbiamo avuto la possibilità di affrontare la morte mediante il supporto culturale di un rito funebre e così non abbiamo avuto modo di elaborare il lutto: le persone malate venivano portate via e non potevi assisterle mentre morivano, inoltre ti venivano consegnate le ceneri senza però avere la certezza che queste appartenessero alla persona cara defunta. Il funerale era proibito, perché erano proibiti gli assembramenti e dunque non potevi nemmeno condividere il dolore con altre persone.

Questi aspetti mi hanno fatto riflettere sulla condizione della morte nella nostra epoca, comprendendo come questa sia il nuovo tabù del contemporaneo, probabilmente per il fatto che la morte non rientra nell’ottica capitalistica: non sei più utile alla società perché improduttivo, dunque sei qualcosa che deve essere nascosto, diventando di conseguenza qualcosa di cui aver paura. Ma allo stesso tempo siamo perennemente (e paradossalmente) esposti alla morte dai media, non si parla d’altro nei giornali e telegiornali, diventa quasi un feticcio. Però la morte che vediamo costantemente è una morte che ci riguarda solo indirettamente; l’altro che muore non è il ‘tu’ ma il ‘lui’. La morte alla terza persona è la morte in generale, la mostra astratta, anonima, un oggetto come un altro che si descrive e analizza e che rappresenta il massimo dell’oggettività priva di tragicità. L’eccesso di saturazione di immagini legate a questo tipo di morte in qualche modo anestetizza l’uomo contemporaneo. Quindi una morte distante, che è altrove, non ci riguarda. Mentre nella sfera personale il lutto viene completamente cancellato, tanto è vero che a oggi c’è molta difficoltà a parlarne. Basti pensare alla difficoltà e all’imbarazzo anche solo nel fare le condoglianze, un termine che oltretutto significa “condividere il dolore”.

Credo che allontanare la morte, volerla negare in questo modo, non sia umano; banalmente la morte è un aspetto della vita stessa e non può dunque essere nascosta, perché riguarda tutti quanti indistintamente. La società atomizza il singolo, ovvero lo isola, e questa individualizzazione porta a una disgregazione sociale: in questo modo la persona – sola davanti alla morte – non ha più gli strumenti con cui superare la crisi del cordoglio ed elaborare il lutto. A oggi anche i funerali sono ridotti all’osso, mentre prima vi era una partecipazione di tutta la comunità, che dava sostegno alla persona. Sono state dunque queste riflessioni a spingermi a voler parlare della morte e del lutto, cercando una espressione attraverso il linguaggio artistico. Con Stuporosa mi auspico di indurre lo spettatore a riflettere sulla condizione attuale dell’essere umano di fronte alla morte, vuole quasi essere un invito a recuperare alcune forme rituali del passato – modalità culturali che possono essere ancora oggi utili per sopravvivere e addirittura vivere bene. Andiamo verso una civiltà completamente laicizzata in cui il rito sta scomparendo; recuperare forme legate a un contesto mitico-religioso antico forse non ha più senso, piuttosto dovremmo trovare il modo di istituire un nuovo rito laico che affronti la morte e recuperi la dimensione comunitaria. Stuporosa è incentrato proprio sul concetto di comunità: volevo che questo progetto fosse corale, un progetto coreografico che costituisse da più corpi un unico organismo, un unico corpo organico dove il singolo ha modo di perdere il controllo perché c’è una comunità che lo riporta all’ordine, richiamando le dinamiche sociali del passato. Inoltre penso che anche andare a teatro sia un rito di condivisione, perché permette l’instaurarsi di un rapporto empatico fra chi guarda e chi esegue. Il progetto Stuporosa è nato come un’estetizzazione e un’attualizzazione di un rito passato, è rivivere attraverso il velo dell’arte uno stato di comunità e una forma di superamento del dolore. 

È in questo caso che entra in gioco il concetto di pothos?

In La preparazione del romanzo Roland Barthes introduce questa parola, ‘pothos’, concetto che definisce un pathos polverizzato, convertito alla sottigliezza; un pathos dunque de-volgarizzato e de-isterizzato, che designa al contempo il gradevole e il funebre: da un lato denota il “desiderio appassionato”, l’amore, l’emozione sensuale; dall’altro il “desiderio di una cosa lontana o assente”, e ci parla dunque della nostalgia, del rimpianto e addirittura del lutto poiché pothos è anche il nome di un fiore che, nell’antichità greca, veniva piantato sulle tombe delle persone care e compiante.

Questa è la direzione che ho voluto prendere, non volevo nella coreografia un dolore esasperato ma una polverizzazione del dolore, attuata attraverso il filtro dell’arte. 

Stuporosa, Francesco Marilungo - Courtesy l'artista, ph Loïc Petit
Stuporosa, Francesco Marilungo – Courtesy l’artista, ph Loïc Petit

Cosa puoi dirmi riguardo il linguaggio coreografico? 

Per quanto riguarda il linguaggio coreografico sono partito da un’iconografia esistente. Il lamento funebre ha delle partiture fisiche codificate, dove si cerca di superare il dolore attraverso la mimesi di questo, quindi io imito il dolore e lo supero in un piano meta-storico per poi tornare in me e superarlo anche sul piano del reale. Questo è il processo di mimesi, e di fatto i gesti e le figure che eseguono le performer sono gesti e figure di imitazione del dolore – come il tirarsi i capelli, strapparsi le vesti, poggiare una mano sulla guancia. La cosa interessante è che queste figure sono quasi figure archetipiche, delle Pathosformel per citare Aby Warburg, ovvero delle figure di pathos che si sarebbero tramandate nei secoli perché, se ci pensi, indipendentemente dal periodo storico, dalla civiltà o dalla religione, l’essere umano soffre in maniera identica: per questo le figure di dolore raggiungono una valenza di tipo universale. Ecco perché i gesti che interpretano le performer sono in realtà delle figure di pathos; successivamente abbiamo codificato questa partitura coreografica con il nome di ‘Qualità della memoria‘, perché credo che queste figure riaffiorino come riaffiorano alla memoria le immagini.

Mi interessano questi aspetti perché in ogni rituale in cui veniva coinvolta la comunità c’era sempre una dialettica tra forma consentita e proibita: in questo caso, nel pianto rituale, si piangeva in un dato modo, il singolo non poteva creare una forma diversa perché la società gliene imponeva una riconosciuta. Ed è così che la comunità aiutava la persona che avrebbe potuto perdere il controllo a causa del dolore, imponendogli forme che erano protette, conosciute e riconosciute. Perché di fronte alla morte – definita ‘Lo Scandalo‘ da de Martino, poiché la morte di fatto è uno scandalo – la persona poteva perdersi andando verso la follia in due modalità opposte: da una parte l’ebetudine stuporosa, da qui il titolo del lavoro, ovvero la dimensione di catatonia, di morte apparente; dall’altra il pianto irrazionale che si manifesta con gesti parossistici. Per proteggere dunque da questi rischi la società istituì il pianto rituale, con forme conosciute e imposte, che aiutavano a superare il dolore. Ecco, volevo dunque che queste forme tornassero; inoltre ho notato come le danzatrici, durante l’esecuzione del task fisico, entrano di fatto in uno stato di ‘concentrazione sognante’, sempre citando de Martino, quindi è come se si attualizzasse quello stato di trance che ritroviamo nella lamentazione. Anche la danza che eseguono con il fazzoletto attinge a gestualità pre-esistenti eseguite in passato dalle prefiche, gesti ri-presi e ri-elaborati.

Stuporosa, Francesco Marilungo - Courtesy l'artista, ph Luca Donatiello
Stuporosa, Francesco Marilungo – Courtesy l’artista, ph Luca Donatiello

Per quanto riguarda la trance, anche la musica aiuta a entrare in uno stato di estasi?

C’è stato un incontro, quasi predestinato, con Vera Di Lecce: una musicista che si sta occupando della parte sonora del progetto e che performa anche assieme alle quattro danzatrici. Vera è salentina e proviene da una famiglia di etnomusicologi e performer che hanno basato la loro ricerca sul folclore salentino, indagando balli e canti tradizionali. Crescendo in questo ambiente Vera ha potuto apprendere tutte le danze codificate e i ritmi di queste tradizioni, che porta avanti anche in un suo progetto musicale autonomo; perciò è diventata una figura chiave all’interno di Stuporosa, in parte ci ha istruito e dal punto di vista drammaturgico è quella figura che detiene il rito e lo conosce in prima persona; è lei che giostra il tutto, ha una posizione centrale nello spazio scenico e trasforma il pianto in canto. Le musiche di Stuporosa sono un’elaborazione di canti tradizionali della lamentazione funebre con contaminazioni contemporanee vicino alla scena rave, sempre per mantenere una coerenza con la questione della ripetizione e della trance.

Inoltre, un aspetto che è diventato il leitmotiv del lavoro è la ninnananna, in quanto è molto vicina al lamento funebre da un punto di vista concettuale. La ninnananna accompagna il bambino dalla veglia al sonno così come la lamentazione accompagna dalla vita alla morte; e la morte è anche spesso chiamata sonno eterno – insomma le risonanze sono evidenti. La cosa interessante è che diversi antropologi ed etnousicologi – nello specifico sto pensando alle spedizioni in Sud Italia di Alain Lomax e Diego Carpitella – hanno ben notato come le prefiche di fatto ripetessero gli stessi gesti sia mentre cantavano una ninnananna che durante la lamentazione: tornavano così sonorità e moduli mimici. Ad esempio in Sardegna nella Barbagia, la prefica ha il nome di atittadora, ovvero colei che “dà la tetta” al morto, colei che lo allatta; infatti, sempre in Sardegna, si dice ‘andare a ninnare il morto’, cantargli dunque una ninnananna.

Nella performance all’inizio Vera canta una ninnananna salentina in grico, brano che torna più volte   e che alla fine si articola in una polifonia corale a cui partecipano tutte le performer, inscenando quasi una liberazione, l’uscita dallo stato di crisi, reso evidente anche da un cambio di colore in scena. Inoltre stiamo indagando anche l’aspetto del sacrificio, ma ad ogni modo il lavoro è un processo creativo attivo, che effettivamente vive e può mutare nel tempo, vediamo dunque quello che arriverà. 

Questo contenuto è stato realizzato da Lara Pisu per Forme Uniche.

https://www.instagram.com/francescomarilungo/

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