Una storia tragica e una coincidenza incredibile accompagnano la vita di Gerhard Richter, uno dei più grandi pittori viventi. Ne sono protagoniste due donne, entrambe di nome Marianne: la moglie e la zia dell’artista.
Le scuole di pensiero sono differenti e tutte valide: qual è il valore della biografia nell’opera di un artista? Conviene analizzarla nel dettaglio o invece ignorarla lasciando sia esclusivamente il suo lavoro a parlare? Il dubbio rimane e forse sempre rimarrà. Del resto le interpretazioni biografiche delle opere rischiano spesso di affondare nella retorica – no, Van Gogh non ha dipinto solo per il gusto di dipingere e Gauguin non è fuggito ad Haiti per immergersi nella natura incontaminata – anche se talvolta risultano ottime chiavi interpretative – come nel caso di Joseph Beuys, esempio doppiamente valido dal momento che ha spesso coinvolto il suo corpo nelle performance, aumentando il senso di adesione tra arte e vita.
Sospendendo dunque il giudizio sulla bontà o la dannosità della pratica, vi è una storia legata a un artista che pare veramente eccezionale. L’artista in questione è probabilmente l’allievo più celebre del sopracitato Joseph Beuys, un allievo che forse è riuscito a superare il maestro: Gerhard Richter. La particolare vicenda si basa rivelazioni contenute in una biografia non autorizzata di Richter uscita nel 2005, scritta da un giornalista tedesco, Jürgen Schreiber. Anche in questo caso rimane al lettore la scelta di interpretare tale inufficialità come un elemento a supporto o a sfavore della veridicità della storia. A questo punto, con il giudizio pienamente sospeso, passiamo nel merito della vicenda per goderne le inaffidabili verità.
Partiamo quindi dal 1961, anno in cui Gerhard Richter, aiutato da un amico, sale su un treno della S-Bahn, la rete urbana di Berlino, e passa a Ovest lasciando Dresda (dove non farà ritorno fino al 1986). Quell’anno, ad agosto, sarebbe infatti stato eretto il Muro. Nonostante lo spettro incombente, quella di Richter non è una scelta dettata da ragioni politiche, ma da un istinto artistico. Nel 1959, visitando Documenta a Kassel, aveva infatti capito che progredire si sarebbe dovuto avvicinare a quel mondo. Una felice intuizione, a cui ne segue un’altra: sceglie di muoversi verso Düsseldorf e di frequentare lì l’accademia. Caso vuole che proprio in quel 1961 Josef Beuys prendeva la cattedra di Monumental Sculpture.
Avviene così l’incontro con il maestro che più di ogni altro lo influenzò, spingendolo a ricercare la verità nella sua arte. Un’indicazione che Richter cercò in ogni modo di seguire, sperimentando continuamente stili e materiali, delineando un percorso virtuoso e personale, mossosi dal più preciso (ma meccanico) iperrealismo fino al caos controllato dell’astrattismo. Ma di questo avremo tempo di parlarne in altre occasioni.
Quel che preme sottolineare ora è quel giorno di primavera del 1961 Richter non è solo sul viaggio in treno che cambierà la sua vita. Insieme a lui c’è Marianne Eufinger, sua moglie dal 1957. Questo è importante non solo perché Ema – come è solito chiamarla l’artista – è il grande amore della prima parte della sua vita (fino al divorzio del 1979), ma anche per il ruolo centrale, purché passivo, che la donna ha nella vicenda questione. Andando contro il volere del padre – Heinrich Eufinger, ginecologo dall’oscuro passato tra le file naziste, la ragazza era riuscita a sposare Richter e fuggire con lui dall’altra parte dell’Europa.
Ma facciamo un doveroso passo indietro. Ema non è la prima Marianne a far parte della vita di Richter, a precederla ci fu infatti la zia del pittore. La quale anch’essa, appunto, faceva di nome Marianne. Per lei Richter, ancora bambino, nutriva grande affetto e ammirazione, tanto da sviluppare per lei un sentimento d’amore quasi materno. Un rapporto unico spezzato però prematuramente. La zia Marianne era infatti affetta da crisi di schizofrenia e, all’età di 14 anni, entrò tragicamente nel progetto eugenetico di purificazione della specie ariana messo in atto dal regime nazista. Marianne venne costretta a ricoveri forzati per lunghi anni in ospedali psichiatrici, in condizioni spesso terribili. Nell’ultimo, quello di Arnsdorf, trovò la morte il 16 febbraio 1945.
Il passato e il futuro, il dolore e la gioia. Nel nome di Marianne sembra condensarsi una metafora della vita di Richter, come tanti giovani dell’epoca disorientati dal dramma e rinvigoriti dalla speranza di un avvenire migliore. La zia ed Ema diventano così i soggetti di alcune delle sue opere più riuscite del tempo. Tra queste ci sono Aunt Marianne (1965) e Mutter und Kind (1972), dove l’artista rielabora alcune vecchie foto per ottenere dipinti e disegni. Nella seconda è evidente, dal titolo e dalla composizione, che l’artista voglia identificare la zia con la madre, un affettuoso tentativo di elevare un amore soffocato dalla Storia. Dall’altra parte Ema è la sua musa prediletta. Iconici alcuni ritratti che le dedica, tra cui quello dove la immortala mentre scende le scale – proprio all’Accademia di Düsseldorf – negli ultimi mesi della gravidanza che avrebbe dato loro il primogenito.
Un nome, dunque, come filo rosso degli albori artistici di Richter, come tratto comune di due delle donne più importanti della sua vita. Quel che l’artista inizialmente non sa – e che scoprirà solo in seguito, e sempre in maniera parziale e mai pienamente definita – è che c’è un altro fattore ad accomunare le due Marianne. Un fattore che è un uomo, un uomo che di nome fa Heinrich Eufinger. Il padre di Ema.
Colui che dopo la guerra sarebbe diventato il suocero di Gerhard Richter, negli anni del conflitto ricoprì un ruolo di spicco nell’ospedale psichiatrico di Arnsdorf. Lo stesso dove morì Marianne. E li si rese artefici di terribili esperimenti e di atroci pratiche mediche, o presunte tali. Richter accettò così l’aiuto economico del suocero per anni, senza sapere che fosse l’assassino di sua zia; Richter si sforzò a lungo di ottenere l’approvazione del suocero, che pur ne disprezzava i “geni scadenti”, senza sapere che fosse l’assassino di sua zia; Richter ritrasse più volte il suocero, senza sapere che fosse l’assassino di sua zia.
Come detto, lo scoprì solo in seguito e in modo frammentario. Anche per questo è inutile procedere nella storia. Meglio interrompersi alla tragica e incredibile coincidenza, senza ipotizzare quel che può essere successo dopo o il modo in cui la vicenda può avere influenzato l’opera di Richter. All’apparenza, non sembra sia sorto un legame tra l’evento e la sua arte. Ma se, già che ci siamo, vogliamo sforzarci di trovare una qualche connessione, seppure dietrologica, possiamo sfruttare le parole che Beuys rivolse al suo allievo quando vide le sue prime opere: “cerca la verità”. Con tutta probabilità non si riferiva certo alla tragica morte di Marianne, ma la fama sciamanica di Joseph Beuys lascia aperto qualsiasi spiraglio.