L’8 febbraio 1951 arriva al cinema Miracolo a Milano, il nuovo lavoro di Vittorio De Sica dopo Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948)
Vincerà la Palma d’Oro al Festiva di Cannes. Siamo in pieno Neorealismo, quel movimento culturale che si sviluppò in Italia tra il 1945 e il 1951 e che ebbe nel cinema la sua maggiore espressione. Un cinema che scavava nella realtà del presente e del più recente passato, portando alla luce storie, temi e personaggi in gran parte del mondo delle classi disagiate e lavoratrici. L’Italia era riuscita a liberarsi dal fascismo e dall’occupazione tedesca e cominciava a crearsi un clima di speranza e di rinnovamento che si diffuse anche nell’ambiente cinematografico. Malgrado le poche risorse economiche del momento, l’entusiasmo e le idee erano molte. Videro la luce tutta una serie di film, anche a budget ridotto, che ebbero un forte successo internazionale. Il personale artistico e tecnico che vi si impegnò era professionalmente cresciuto tra gli anni Trenta e Quaranta costituendo una sorta di fronda all’interno della cinematografia imperante.
Il cinema neorealista era un cinema antiborghese, messo al servizio degli umili e degli oppressi, dei poveri, dei più degni e fu il critico francese André Bazin a far notare, più di ogni altro, quale fosse la vera portata innovativa del movimento, concentrando la sua analisi critica piuttosto che sugli aspetti tecnici, estetici o stilistici, sul nuovo approccio che questi film mostravano nelle modalità del racconto cinematografico. Bazin riprendeva le idee di Cesare Zavattini, lo sceneggiatore di De Sica e il più instancabile difensore dell’estetica neorealista che voleva un cinema che presentasse il dramma nascosto negli eventi quotidiani, come l’acquisto di un paio di scarpe o la ricerca di un appartamento.
“Il cinema italiano è il solo a salvare, nel senso stesso dell’epoca che dipinge, un mutamento rivoluzionario” diceva Bazin che, prendendo ad esempio l’avanguardia sovietica, fece anche notare che se il Potemkin ha potuto sconvolgere il cinema non è stato solo a causa del suo messaggio politico, nè perchè sostituiva i teatri di posa con gli ambienti reali, ma perchè aveva messo la Russia al centro della riflessione cinematografica. In una parola: i film “realisti” di Ejzenstejn (il più grande teorico del montaggio dei suoi tempi) nascondevano più scienza estetica delle scenografie, le luci e l’interpretazione delle opere artificiali dell’Espressionismo tedesco. Lo stesso vale per il Neorealismo italiano che comporta un progresso dell’espressione, un’evoluzione conseguente del linguaggio cinematografico, un’estensione della sua stilistica.
Miracolo a Milano racconta gli invisibili e gli emarginati, ma non con gli strumenti patetici del primo Neorealismo, quello che Bazin definisce “demone del melodramma al quale non sanno resistere i registi italiani”, ma con uno sguardo scanzonato e caloroso di chi non piange davanti alle avversità e, malgrado tutto, è felice ogni mattina al sorgere del sole. Un sole che si vede poco dietro la nebbia della grande città delle industrie, ma un sole che tutti sanno che esiste e che è presente per tutti e del quale tutti indistintamente hanno il diritto di godere.
Il giovane e solare Totò (il protagonista del film) nasce sotto un cavolo come nelle più divertenti leggende contadine ed è il simbolo felice di un’Italia pura, ma mai sciocca. La sua contagiosa felicità è la cifra di un modo di vivere che deve essere la risposta più efficace alle violenze dei padroni, dei borghesi, dei reazionari. Un sorriso per una rivoluzione allegra. Zavattini e De Sica si muovono negli ambiti della favola spassosa, dell’elegia leggera. La naïveté di Totò (radice su cui negli anni ’80 sono nati i Pozzetto e i Boldi nelle loro uscite più poetiche) è l’unica cosa che serve. Una piccola magia per volare, anche su un manico di scopa, sopra il buio e la tristezza di un mondo grigio che guarda solo al profitto, lasciandosi alle spalle quell’umanità senza la quale l’uomo non è più uomo.