Nightmare Alley – La Fiera delle Illusioni, al cinema la versione di Guillermo del Toro di un classico del noir, tra mostri e psicanalisi
Hollywood continua a guardare ai classici del proprio cinema, Spielberg con il remake di West Side Story (il classico dei classici), Guillermo del Toro con La Fiera delle Illusioni (Nightmare Alley), nuovo adattamento del romanzo di William Lindsay Gresham da cui nel 1942 era stato tratto l’omonimo noir di Edmund Goulding, con Tyrone Power e Coleen Gray. Il botteghino dice che al pubblico queste operazioni non interessano granchè, l’Academy risponde con qualche nomination (sette per West Side Story e quattro a Nightmare Alley – Miglior film, Migliore scenografia, Migliore scenografia e Migliori costumi).
Stan (Bradley Cooper) ha un da poco detto addio al padre, vagabondando in fuga da sé stesso e dal proprio passato arriva in un circo dove trova lavoro come tuttofare, ma è ambizioso, abile e manipolatore. Osserva questo mondo tetro e oscuro che lo circonda, ne impara alla svelta le regole, si fa degli alleati, e dei nemici. Ben presto capisce come mettere a frutto le sue capacità, ruba i trucchi di un vecchio mentalista avvinazzato e scappa con la donna elettrica (Rooney Mara) in cerca di gloria. La coppia inizia a esibirsi in hotel di lusso per spillare quattrini grazie alla lettura del pensiero e messaggi dall’aldilà. A mettergli i bastoni tra le ruote arriva un’algida psicanalista (Cate Blanchett), tra i due nasce però un’alleanza… Le cose si metteranno malissimo.
Quella del veggente, dell’ipnotizzatore, del medium, è una figura ricorrente nel noir anni ‘40, distorce la realtà, la altera e la rende nuova, eccentrica e pericolosa, ma il suo destino è quello di essere smascherato, perché la truffa agli occhi dello spettatore ha fascino solo laddove è neutralizzata, deve essere ingegnosa certo, ma al fine innocua, o se letale il suo artefice punito in debita maniera.
La manipolazione (delle persone, della verità) è un tema centrale di tutto il genere noir e con La Fiera della Illusioni questo aspetto si sovrappone alla perfezione a quello della psicanalisi (che indaga la realtà per riportarla alla sua giustezza o che ne scopre una nuova, corrotta e distorta, dietro la facciata delle maschere sociali?); per Guillermo del Toro è quindi un ready made perfetto: un eroe oscuro, tutto vero / tutto finto, il gaslight e la proiezioni della mente che generano mostri (fino a poterli toccare), un mondo di outsider in cerca di rivalsa.
Radunato un cast all stars il regista allestisce la sua Fiera delle Illusioni, dandole però più la veste di un lussuoso servizio di moda, soffocando il malessere e i miasmi truffaldini tra cui si muovono i suoi protagonisti con una fotografia patinata arancio e blu (come da tradizione).
Guillermo del Toro dopo il successo di pubblico e di critica ottenuto con La Forma dell’Acqua (The Shape of Water) continua con il suo cinema di mostri (quelli veri sono quelli interiori ovviamente – il rancore, i rimpianti, la vendetta, il lutto), ma laddove col precedente film aveva realizzato un pastiche postmoderno citazionistico e cinephile (colto e romantico) con Nightmare Alley predilige un approccio filologico al materiale originale (romanzo e film), privo di invenzioni, aggiornamenti, slanci o sussulti.
Questa odissea (due ore e mezza) segue l’abbassarsi del suo protagonista in un terreno dove, gradino dopo gradino, la perdita di controllo diventa sempre più totale, in una vertigine di sabbie mobili vischiose e mortifere, ma lo fa con un film che, al contrario, trasuda controllo. Al netto di una messa in scena ricchissima, ricercatissima, sfarzosissima e meticolosissima (troppo?), i suoi personaggi sembrano perdersi tra gli ambienti art deco, tra le quinte e i tendoni del circo, apparendo come l’ologramma di un cinema passato, non attuale, il contrario di un classico (i classici sono contemporanei sempre). La versione di del Toro ha il pregio di mettere in luce alcuni aspetti tralasciati dall’adattamento di Goulding (come si crea un mostro?), funestata da una produzione travagliata (soggetto troppo scabroso, pressioni da parte dei produttori, casting tribolato), rendendo così, in una struttura simbolicamente circolare, più forte e efficace il finale (per una volta non trascinato in inutili spiegoni) che si rivela (se ci arrivate) il vero colpo da maestro dell’intero progetto.