Amarcord 35 – Un nuovo appuntamento con la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi
Oscar Piattella da Cantiano, Pesaro, fu pittore molto promettente negli anni ’50 e per un certo periodo, mio grande amico. Ogni volta che in macchina da Trevi percorrendo la vecchia Flaminia, mi recavo a Fano per insegnare all’Istituto d’arte diretto da Edgardo Mannucci (cioè tutte le settimane dell’anno scolastico) mi fermavo lungo la strada a Cantiano, dove Oscar e sua moglie Anna gestivano la locale farmacia e sempre mi invitavano a pranzo. Oscar Piattella era (certamente lo sarà ancora) un uomo cordiale e gentilissimo e molto dedito al suo lavoro. Ripeto, per me oltre che sincero amico significava una grande realtà della pittura italiana, perché era veramente bravo e impegnato intellettualmente e fisicamente nel suo lavoro e nella sua ricerca pittorica. Aveva già esposto a Milano, alla galleria L’Ariete, di Beatrice Monti, presentato da Franco Russoli, il top della critica di allora. Dunque una garanzia. E L’Ariete era una galleria mitica: la galleria di riferimento di Enrico Castellani e che negli anni ’50 aveva presentato anche Robert Rauschenberg, Jackson Pollock, Mark Rothko, ecc. Insomma la galleria più illuminata e snob in Italia. Ma dalla fine degli anni ’60 quando smisi di insegnare a Fano, con Oscar Piattella ci siamo perduti di vista. Forse ci siamo incrociati in qualche occasione una due volte, ma non di più. E sempre grandi abbracci e promesse di rivederci a Cantiano. Un grande rimpianto per me perdere un amico gentile e appassionato e pittore di forte temperamento.
Ma con il mio trasferimento a Milano, nel 1970, i viaggi nelle Marche furono sostituiti da viaggi e soggiorni a Düsseldorf e Colonia, allora le vere capitali dell’arte in Europa, con artisti come Joseph Beuys, Gerhard Richter, Sigmar Polke, Blinky Palermo, ecc. e il grande gallerista Konrad Fischer, la più importante e propositiva in Europa (fu la prima al mondo a proporre Sol LeWitt, Carl Andre, Donald Judd, Richard Serra, Robert Morris, Dan Flavin, Hanne Darboven e Gerhard Richter: artisti che io consigliai subito al promettente collezionista bresciano Antonio Spada, allora mio amico). E i miei pranzi a base di tagliatelle fatte in casa Piattella, furono sostituiti da pranzi con lo stinco di maiale (che a quell’età mi sembrava straordinario, molto più gustoso delle tagliatelle) che mi offriva Joseph Beuys accanto al suo Ufficio per l’arte, nel centro di Düsseldorf, vicino al famoso Restaurant Spoerri, ritrovo internazionale dei buongustai. E dove accanto Spoerri aveva creato la galleria della Eat Art, cioè arte da mangiare, in cui gli artisti più noti (tra cui Beuys) si cimentavano con opere di cioccolata con panna o panforte. Le inaugurazioni della Eat Art erano molto frequentate e divertenti e in pochi minuti tutte le opere erano sold out, cioè tutte mangiate. E gratuitamente. Mentre l’Ufficio per l’arte era aperto tutti i pomeriggi, dopo che Joseph aveva tenuto la sua lezione in Accademia e dove il grande artista si intratteneva con chiunque volesse entrare a discutere di arte e del suo ruolo sociale. Per lo più erano curiosi e perditempo a digiuno di arte. Molto spesso immigrati turchi. Ma era fantastico vedere Beuys con quanta serietà ed entusiasmo si intrattenesse con loro. Mai visto in vita mia un artista così disponibile verso chiunque, soprattutto con quale calma affrontava i suoi detrattori o provocatori scettici. E quasi sempre riusciva a convincerli alle sue idee sociali dell’arte.
Non mi sorprese dunque quando nel 1974, nella galleria di René Bloch a New York, in una famosa performance, affrontò un coyote e riuscì ad ammansirlo. Convisse con il coyote, animale per nulla socievole, per tre giorni e tre notti in galleria, armato di un bastone e con una coperta sul braccio. Dapprima il coyote tentò di aggredirlo ma dopo tre giorni dormivano insieme su un pagliericcio. Questa famosa performance, che si chiamò I like America and America likes me, mi ricordava l’episodio di San Francesco e il lupo di Gubbio. Sia Beuys che San Francesco due grandi sciamani.
Dunque con le mie frequenti peregrinazioni in Germania avevo dimenticato il grande amico Oscar Piattella di Cantiano. Ma la vita è anche questa. Non si può continuare ad essere amici se non ci si frequenta e non ci si vede e si abita a 500 km di distanza. Purtroppo sovente il lavoro mi ha portato dove il cuore non voleva, allontanandomi da affetti cari e formativi della mia giovinezza. E che ora riaffiorano nella memoria e mi emozionano.
E da Oscar Piattella a Beuys o Richter, il passo non fu breve. Ma in fondo nemmeno troppo traumatico. Nuove amicizie si formarono con Katharina Sieverding, Ulrike Rosenbach (una incredibile protofemminista), con Bernd e Hilla Becher (dormivo nella loro casa, un vecchio mulino a vento in campagna, ristrutturato ma sempre scomodissimo e mal riscaldato), con Marcel Broodthaers. E tanti, tanti altri artisti tedeschi o di passaggio in quella nuova capitale dell’arte. Ma ogni tanto il mio pensiero tornava a Cantiano, in provincia di Pesaro, alla Farmacia Piattella, dove Oscar, in camice bianco, serviva aspirine e antibiotici e appena poteva correva nel suo studio, accanto alla farmacia per dedicarsi alla sua amata pittura.
In ogni caso ci perdemmo di vista, come è accaduto con centinaia di artisti che per un breve periodo della mia vita, furono amici. Che mi hanno dato molto e a cui forse io ho dato poco. Alcuni anni fa, diciamo quindici, per una circostanza che non ricordo, percorrendo proustianamente la vecchia Flaminia per recarmi ad Ancona, mi fermai a Cantiano e corsi alla Farmacia Piattella, per salutare il mio vecchio amico. Una gentile signora in camice bianco con molta reverenza mi disse che il Maestro non c’era, ma potevo lasciare un messaggio. E non vidi nemmeno sua moglie Anna. La farmacia mi apparve ostile e così pure quel paese che una volta avevo amato e mi aveva ospitato con tanta felicità. E fuggii senza nemmeno lasciare il mio nome.
Mi è tornato in mente Oscar Piattella perché mi è pervenuto recentemente un catalogo di una sua mostra di disegni alla Rocca Paolina di Perugia (al cuor non si comanda). Ho sfogliato con commozione il catalogo e ho cercato di riempire grazie a Google un vuoto di trent’anni, forse di più.
Ho rivisto alcune dipinti bellissimi, posti in vendita online: un’opera del 1959, molto bella e che spero di poter comperare, al prezzo di 500 euro. Vi giuro amici che ho pianto. Pensando a Oscar Piattella, alla sua bravura, al suo entusiasmo e alle sue ambizioni frustrate. Ma anche ai tantissimi Piattella in Italia e nel mondo, bravi, talvolta bravissimi, oscurati dal caso, dalla sfortuna, dalla incapacità di proporre o difendere il proprio lavoro.
Ma forse presto verrò a sapere che il Maestro Oscar Piattella è un mito nelle Marche o a Pesaro Urbino. E vive felicissimamente, da principe, la sua quarta età, attorniato da amici che lo stimano e lo amano. E gli guidano amorevolmente la macchina. Allora penso che forse è meglio così anzi ché, per qualche strana circostanza o amicizia, incrociare Hauser & Wirth o Gagosian che da domani venderebbero i suoi dipinti a 200 mila euro, invece che a 500. Ma allora addio alla serenità e felicità nel realizzarsi con il proprio lavoro. In quel momento inizierebbe la competizione, con gelosie, rancori, lotta all’ultimo sangue. A cui un decano come Oscar Piattella non reggerebbe.
Il successo ha un prezzo troppo alto e alla mia età mi fa paura. E amo sempre di più i Piattella di tutto il mondo. Che operano silenziosi in città, paesi, villaggi spesso sconosciuti, ma felici e realizzati con il loro lavoro. Purché non si mettano a criticare o competere con gli artisti più noti e di successo e a inveire contro il sistema dell’arte che li ha emarginati. Oggi per un artista avere successo è molto difficile. Forse impossibile. La strada è impercorribile e non si arriva mai alla fine.
Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com