Studio TreTre è un nuovo progetto condiviso e spazio di ricerca sito in via Marco d’Agrate a Milano, sullo sfondo di un’ex-officina.
Abbiamo dialogato con i dieci artisti che formano questa realtà per approfondire alcuni temi topici, centrali nelle loro pratiche. Partendo dall’interrogativo su come raccontare storie tramite l’opera d’arte, indagheremo come si gestisce la rappresentazione dell’attrazione, per poi concentrarci sulla costruzione di una cornice artistica concreta. I contatti, o scontri, tra uomo, natura, oggetti e spazi chiuderanno questa conversazione.
Nelle opere Dove ogni cosa resta (2021, Lucia Cristiani), Altro giro altra corsa (2021, Nicolò Masiero Sgrinzatto) e Portuale (2018, Francesca Migone) la dimensione narrativa è centrale. Come si gestisce una storia da raccontare attraverso un’opera d’arte? Quali sono gli aspetti da tenere a mente, quali i rischi?
Cristiani: la gestione umana della storia è fondamentale. Per me è essenziale avere cura delle storie che diventano parte del lavoro. Durante gli ultimi dodici anni ho diviso la mia vita fra l’Italia e la Bosnia. Lì ho imparato che passato e presente convivono, sono presenze tangibili e simultanee, in bilico, che si influenzano e si compenetrano in un perenne dialogo di ridefinizione e costruzione di scenari futuri.
In questi anni mi sono concentrata sull’osservazione di modelli sociali individuali e collettivi e come questi possano rivelarsi tanto consolidati quanto fallimentari oppure fragili quanto potenzialmente innovatori. In Dove ogni cosa resta (radici) è centrale la percezione del bilico, un equilibrio instabile, fisico ed emotivo. Questa condizione esistenziale è indispensabile per sviluppare una narrazione aderente al sentimento che ricerco, tanto intenso quanto precario.
Masiero Sgrinzatto: le chiavi universali degli autoscontri hanno uno spirito bellicoso: per possederle devono essere rubate al proprietario della giostra o emulate. Il traguardo di questa azione determina l’accesso a giri gratuiti illimitati. La storia di questi oggetti è una possibile allegoria del conflitto. Le sculture sono state create in seguito al furto del ferro da una carpenteria messo in atto da un amico operaio che, con la sua presa di posizione rispetto al suo contesto lavorativo, attribuisce valore all’esistenza di questi manufatti, svincolandoli dall’essere semplici forme in ferro assemblate.
Questo ha determinato il baratto del ferro per birra, la partecipazione in forma anonima all’inaugurazione della mostra, la partizione in caso di vendita delle sculture, lo stimolo a perseguire un percorso differente dal lavoro in fabbrica. In questo lavoro il pericolo risiede nella gestione umana della storia. Il rischio è il tornaconto.
Migone: credo che uno degli aspetti più interessanti di un qualsiasi racconto sia la capacità di parlare di situazioni che vanno oltre il racconto stesso. Una parte importante della mia ricerca è riuscire a trovare storie che, seppur semplici, siano in grado di raccontare più di quello che può apparire a un primo sguardo. Nel caso di Portuale, un progetto tuttora in divenire, sono stati gli oggetti da lavoro che è possibile vedere nelle aree portuali ad incuriosirmi. Semplici elementi, talvolta molto grezzi, il cui uso e forma raccontano del complesso ambiente in cui si trovano. Nel processo di ricerca e sviluppo del lavoro, penso sia necessario riuscire a mantenere un equilibrio che permetta di non perdere la delicatezza di una storia e che possa, allo stesso tempo, arricchirsi di altre suggestioni e narrazioni portate da nuovi interlocutori del lavoro.
Parte della vostra pratica – penso in particolare alla ricerca sull’aposematismo di Marina Cavadini e ai ritratti di donne di Adelisa Selimbasic – è dedicata all’attrazione, visiva principalmente. Se da una parte è il materiale lucente ad attrarre l’attenzione, dall’altra è la femminilità sincera di figure libere. In che modo gestite questo tema e la sua rappresentazione?
Studio TreTre: avere una ricerca che affronta la questione dell’intimità e della seduzione, in una cultura sessualmente repressiva come la nostra comporta, per noi, di scontrarsi con il retaggio di secoli di censura. Allo stesso tempo però, il nostro lavoro ci permette un confronto costante sul tema e sul tabù nonché l’opportunità di trovare un linguaggio visivo e lessicale utile a scardinare i giudizi che generano imbarazzo. I soggetti del nostro lavoro sono unghie, culi, sex toys e guanti in lattice. Situati in contesti ordinari e sospesi, corpi seminudi e gambe leggermente aperte seducono il nostro sguardo di esseri desideranti. Siamo consapevoli che i nostri modelli culturali sono in conflitto con il desiderio sessuale. Ma tutto, compresi dei residui di plastica a terra, può caricarsi di energia erotica.
Se cerchiamo di collocare i dipinti su una linea temporale ci troviamo nella fase del flirt e dell’eccitamento, nel corso del quale la sfera cognitiva si attiva mediante l’immaginazione, mentre la scultura ha già superato l’apice del piacere, distruggendosi in mille pezzi. Nel secondo episodio di Kaiba, l’anime di Masaaki Yuasa, un personaggio chiamato Parm inserisce una copia dei propri ricordi in un altro corpo. Parm si masturba con la sua nuova gemella e, al culmine, esplode. A volte ci aiuta confrontarci con il lavoro di altre persone che affrontano le stesse questioni instaurando collaborazioni multidisciplinari. Un esempio è la pubblicazione di Adelisa Selimbasic che uscirà a breve insieme al marchio milanese Fantabody impegnato nella sua propaganda commerciale di liberalizzazione di ogni forma di corpo, andando anche a celebrare consapevolmente quelli che la società potrebbe definire come difetti, dando una percezione di questi ultimi come sensuali e aspetti valorizzati della corporalità. Ma non solo, attraverso pose che alludono ad una sessualità esplicita cercano di estraniare il corpo dalla sua ordinaria categorizzazione sessuale. Nel 2019 Marina Cavadini ha collaborato con il sexy shop milanese Wovo Store che si impegna a promuovere una libertà di scelta sessuale soprattutto per le ragazze. Insieme hanno prodotto accessori in lattice per fondere il corpo con l’architettura e le specie vegetali dell’Orto Botanico di Torino.
Le vostre opere, o organismi – ad esempio, Burner (2018, Lorenzo Lunghi) e Idrocarbo (2021, Francesco Pacelli) – abitano i vostri personali universi artistici, creati tramite l’avvicinamento di diversi ambiti: per Lunghi sono quelli fantascientifici e DIY; per Pacelli sono quelli del rapporto tra il mondo del reale e quello di plausibili situazioni immaginarie. In che modo è possibile creare una propria cornice creativa credibile nel quale far abitare le proprie creazioni?
Studio TreTre: Piero Di Cosimo era un tipo strano. Nato sotto Saturno, non voleva che si pulisse mai per terra nel suo studio. Un casino totale. Nello stesso pentolone dove preparava i pigmenti cuoceva uova soda che avrebbe poi mangiato per settimane. Queste uova lo avrebbero reso immortale. Il Vasari racconta di come Piero andasse regolarmente negli istituti psichiatrici a cercare le macchie di sputo incrostate e sedimentate nel tempo sulle pareti per la composizione dei suoi dipinti. Scene di battaglia, figure umane, animali comparivano ai suoi occhi da queste macchie informi. Memorie e alterazioni del reale che andavano al di là di un’esperienza visiva predefinita. L’aneddoto degli sputi inseguiti da Piero rappresenta in parte il punto di congiunzione tra i nostri lavori. Come le macchie di Rorschach in psicologia, lo sputo è massa informe, elemento in grado di attivare un’esperienza mentale personale.
Quello sputo è un po’ metafora per le nostre opere. In una complessità di informazioni e di sentimenti, il mio lavoro [Lunghi] rielabora gli sputi popolari, le reazioni di pancia che tante volte strutturano racconti e narrazioni alla base delle mie sculture. Gli oggetti tecnologici sono sotto analisi poiché base della nostra società odierna. La loro presenza è causa di paranoia e alienazione e proprio per questo cerco di riappropriarmene, li smonto per capirne lo spirito che li possiede o semplicemente per defunzionalizzarli, renderli patetici, insomma per dargli un’altra narrazione. Lavoro su un racconto alternativo.
Per me [Pacelli] l’opera è quasi sempre pretesto per poter arrivare ad altro. Mi affascina l’idea di alludere a mondi alternativi e situazioni plausibili, senza mai definire o chiudere all’interno di un recinto le possibilità visive che l’opera stessa suggerisce. È un lavoro che definirei sulla memoria, al contempo individuale e collettiva, che si prefigge, forse con presunzione, di azionare un click. Mi piacerebbe provocare un momento di escapismo per me come autore e per lo spettatore che fa esperienza dell’opera. Il rapporto tra naturale e sintetico, tra mondo organico e inorganico, tra evoluzione e adattamento in relazione alla potenziale presenza futura dell’umanità sono i temi e i riferimenti che sento a me più vicini per innescare questo meccanismo.
Le nostre opere in fondo sono delle storie. Storie da costruire, da rielaborare e da tramandare. Non sono vere, non possono essere del tutto false. Ciò che le rende autentiche è l’incredibile capacità umana di fidarsi, o di affidarsi, a esse.
L’uomo collabora e si scontra con ciò che ha intorno, sia questo vivente o meno. Ludovico Orombelli indaga i problemi conoscitivi tra oggetti e i loro utilizzatori. Edoardo Manzoni si muove nell’ambito del folklore contadino, e in quello della cooperazione tra animale e uomo. Infine, Vincenzo Zancana si interroga su quali emozioni intercorrono tra spazio abitato ed abitante. Come si sviluppano queste tensioni nelle vostre opere?
Orombelli: La nostra vita è fortemente regolata dalle immagini e gli oggetti che ci circondano, in una costante sovraesposizione verso stimoli fugaci. Nel mio caso, il recupero di tecniche desuete riesce a dare un nuovo aspetto alle cose, risvegliando percezioni sopite. Una pittura dalla marcata qualità oggettuale ci avvicina alle presenze che definiscono la nostra esistenza ordinaria.
Manzoni: Gli oggetti che accompagnano la vita dell’uomo non hanno solo il ruolo di “strumenti” ma sono portatori di messaggi sociali e di energie, sono presenze animiste.
Da artista cerco di osservare il linguaggio estetico-visivo degli strumenti che mettono in relazione natura e artificio, uomo e animale. Dallo strumento tecnico a quello magico la mia ricerca parte sempre dalla realtà rurale nella quale sono cresciuto.
Zancana: Nella mia ricerca definisco questa relazione tra spazio abitato e abitante come il risultato di un nuovo Antropocene focalizzato non sui processi chimici/fisici bensì culturali, ambientali e memoriali. Come artista approfondisco questa tematica estremamente legata alla scienza e alla geologia immettendola in un ambito più intimo e personale. L’uomo modifica qualsiasi ambiente che lo ospita, sia naturale che artificiale, e insieme ad esso i sistemi a loro volta connessi. Nelle mie opere intervengo in questa analisi prelevando componenti da entrambe le parti per accedere alle dinamiche che intercorrono in questo rapporto.
Attraverso la materia fotografica gli elementi raccolti per me significativi vengono restituiti al fruitore tramite la stampa, il video e la scultura, attivando un immaginario contemporaneo legato a storie, luoghi, informazioni e procedimenti.
Questo contenuto è stato realizzato da Eleonora Savorelli per Forme Uniche.
Studio TreTre – Via Marco D’Agrate, 33 – Milano
Composto dagli artisti: Lucia Cristiani, Lorenzo Lunghi, Edoardo Manzoni, Francesca Migone, Ludovico Orombelli, Francesco Pacelli, Adelisa Selimbasic, Nicolò Masiero Sgrinzatto e Vincenzo Zancana
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