Riflessioni sopra l’opera Pensa a Knut! di Sophie Westerlind (di Erica Roccella e Luca Zuccala)
Knut, eppure è un bambino.
Knut, così duro, ma la è tela è verde pallido, rosa tenue, blu mare.
Knut, e si resta sospesi, sulla soglia, in attesa di entrare.
Knut, un suono estraneo, improvvisamente familiare.
Quando Sophie li ritraeva per ore, nel suo atelier di Venezia, in Giudecca, voleva che il signore e la signora Westerlind si sentissero banalmente a casa, a proprio agio. Così da trasferirli leggeri, quasi distratti, sulla superficie della tela. “Papà, pensa a Knut!”, diceva, e sul suo volto si scioglievano le rughe, le noie del giorno, i grovigli dei giudizi. “Pensa a Knut!”, un monito semi-serio, quasi un verso apotropaico per scacciare, all’istante, pessimi pensieri. “Pensa a Knut!”, ripeteva: in un attimo, il titolo del dipinto.
L’idea espositiva al principio: un dittico, un trittico, un mosaico che aleggiasse come una narrazione, una nube sospesa capace di scendere, scivolare sulla sinistra e calarsi sulla scena insieme al visitatore. Accompagnandolo, attraversando con lui la soglia-attore o spettatore che fosse, nessuna eccezione. Varcando, anzi, rompendo la parete – quella fisica, quella interiore. Cambio di programma, virata sul quadrato, formato connotativo di Sophie. Nessuna sorta di pala, troppo retorica. Ed ecco la mostra: “Pensa a Knut!”, fa sorridere. È una tela, un “quadro”, che indaga sicura lo spazio. Lo plasma, lo rimodula con le misure dei suoi colori. Fortuitamente simbolo di stabilità, cornice in cui è inscritto il ritratto qui e ora; volutamente indicazione in punta di piedi ma con un peso, faro calamitante di richiamo delicato, tutto intriso di relazioni intime, di sentimenti nuovi, insieme unici, insieme universali.
È punto di fuga, di transito, di attrazione magnetica il dipinto di Sophie, è quasi seducente, già dall’esterno della struttura. Si passa dal foyer –quindi dal quadro– per entrare nel ritratto, nel corpo, nell’Uomo; per vestire i panni del visitatore, spettatore o attore; per passare, infine, sulla scena, nel teatro, al di qua della finzione. “Pensa a Knut!”: una soglia imprescindibile, una catarsi all’opposto, una tela che si fa attesa, limite, limbo, liminale. Comprensione effimera, fatua, congiunzione indecifrabile e ineffabile. Principio e senso, senza limiti di categoria. Introduce al linguaggio del teatro “Pensa a Knut!”, a quella trama di relazioni intessute tra palco e platea, tra spettatore e spettatore. Biunivoca eterodiretta, noi guardiamo loro, loro guardano noi.
Ma chi sono loro? I genitori dell’artista, si diceva, il signore e la signora delle prime righe. Emblema della borghesia svedese, severa, protestante. Loro, la coppia ritratta che “Pensa a Knut”, cristallizzata dalla mano di Sophie. E chi è Knut? Il giovanissimo, minuscolo nipote della famiglia, con quel nome vecchio come il mondo, totalmente in disuso in Svezia, non propriamente adatto a chiamare un bambino. Pensa a Knut!: fa ridere, semplicemente. Pensa a Knut!, e tutto vola via. Questa la chiave: un cortocircuito tra nomi desueti, nomi da antagonisti impassibili, antieroi impertinenti, affibbiati a bei buffi bambini che stringono orsi di peluche – indossando occhiali da sole più grandi di loro. Vibra la ruga del signor Westerlind, si scioglie. Afflati di sincerità e leggerezza senza concessioni alla retorica. Crollano le ultime impalcature del giorno. Insieme al colore, alle incombenze, colano sulla tela.
È un quadro di silenzi “Pensa a Knut!”, nessun urlo, nessuno schianto. L’olio solca la pellicola tirata a gesso, lì dove ragiona la materia grassa. E ancora scorre, s’insinua, s’appropria, vive. Una sostanza resa da Sophie in maniera inedita –almeno per quanto concerne la nostra tradizione pittorica– conosciuta al Royal College, a Londra, durante i suoi studi. Lì ha filtrato le pennellate di Frank Auerbach, di Leon Kossoff, di Graham Sutherland, di Lucian Freud; e poi l’ha immersa, nuda, nella forza espressionista mitteleuropea, quella di Oskar Kokoschka, di Richard Gerstl, dei tedeschi incontrati nei suoi viaggi tra Austria e Germania. Li rende in maniera più tersa, Sophie, più compassata, almeno in superficie. E infine li annega, inesorabili, nelle arie assolate di Joaquin Sorolla, diradate e filtrate nella luce elettrica dello studio, nel magma della figurazione di ritratto novecentesca (Celia Paul, Paula Rego, Alice Neel), che qui convergono nella luce di una stanza veneziana.
Al centro: l’indagine psicologica dei soggetti, la resa degli affetti, di moti dell’anima amati per tutta una vita, riassunti in attimi-spasmi-carezze poggiate a spatola, ritratti per giorni in uno studio. Fermi, concentrati per ore. Arrivati apposta da Stoccolma in Giudecca, al limite-limbo di Venezia. Attesa, soglia -di nuovo- sospensione al confine della città. Quasi una dimensione altra, prima di accedere al teatro della vita, alla rappresentazione del mondo, allo spettacolo del Carnevale che proprio allora, mentre Sophie dipingeva, si riversava per le strade. Sul bordo sottile tra vita e sonno, tra città scalpitante e città nebbiosa, invisibile. Rievocando forti quelle idee di sogno, di veglia, di psiche, tanto care al teatro strindberghiano.
«I personaggi si scindono, si raddoppiano, si sdoppiano, svaniscono, prendono coscienza, si sciolgono e si ricompongono. Una coscienza, tuttavia, sovrasta tutto, quella del sognatore: per essa non ci sono segreti, incongruenze, scrupoli, leggi. Egli non condanna, non assolve; riferisce: e poiché il sogno, il più delle volte, è doloroso e solo di rado lieto, una nota di malinconia e pietà verso quanto è vivente attraversa il vacillante racconto. Il sonno, questo liberatore, diventa spesso doloroso, ma quando il tormento arriva all’estremo, ecco il risveglio a conciliare il sofferente con la realtà. E la realtà, per penosa che sia, in quel momento costituisce pur sempre un sollievo, rispetto al sogno tormentoso» (Strindberg).
Ma non ci addentreremo in drammi altri, restiamo a Venezia, alla pittura, alla sua densità sospesa. Nella concentrazione che esplode tra le mani sciolte di lui, nelle pieghe delle vesti, negli occhiali in bilico su una gamba, forse in procinto di cadere. Accanto, sulle mani e sulle braccia sovrapposte, quasi accavallate, della signora Westerlind. Sparsi, in quei tocchi di blu-turchese che illuminano i centri nevralgici del dipinto e si fissano sui visi – sentori del mondo, sinonimi di esistenza, traccia di immediata umanità. Sullo sfondo, un telo-sipario connette le due poltrone, quinta contigua su cui si costruisce la scena. Lì tutto si chiude, si abbassa, cala. Restano solo la vita, l’uomo, gli specchi delle anime riflesse negli occhi. Carne e vita che colano, si accumulano, passano, inghiottono materia. Fissate per sempre sulla tela di Sophie, stemperate sulle guance impacciate di Knut.