La recensione di Another round for five, regia e coreografia Cristiana Morganti. Andato in scena al Teatro Nazionale di Genova l’1 e il 2 aprile scorsi
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi dei Settanta del secolo scorso nella Germania occidentale si affermava una corrente artistica vera e propria che avrebbe fatto scalpore. Non è un genere del balletto, nè del teatro inteso come tutti sappiamo: si chiama il teatrodanza. La sua ideatrice e musa fino ai giorni d’oggi è Pina Bausch. Di lei sappiamo tutto e abbiamo già scritto tutto. Quello che invece vogliamo mettere in evidenza oggi è che dopo la Bausch ci sono stati altri coreografi, prevalentemente venuti dalla sua scuola, che hanno preso in mano il suo testimone per continuare a far vivere questo genere. Una di loro è Cristina Morganti, per diciotto anni danzatrice solista del Tanztheater di Wuppertal.
La Morganti, attualmente Professeur Associé al Conservatoire Nationale Superieure de Paris, è artefice di numerose creazioni di cui una è stata ospite al Teatro Nazionale di Genova l’1 e il 2 aprile scorsi. Another round for five, questo il titolo, ripercorrendo i topos di Pina Bausch si apre in una scena quasi completamente vuota. È uno spazio indefinibile, sospeso, un luogo in cui ci si può liberamente perdere, lasciarsi andare, dar sfogo alle proprie emozioni di qualunque tipo siano. I cinque personaggi infatti sono protagonisti di una indagine sull’Umano e come in una seduta psicanalitica si confrontano e si affrontano. Sembrano volersi bene, ma anche odiarsi, si abbracciano per poi picchiarsi selvaggiamente. Insomma danno libero sfogo ad ogni loro istinto. I ricordi del loro trascorso fanno da canovaccio ad una storia che non c’è e sono solo il pretesto per presentare i vari caratteri di ognuno di loro. Il tempo è quindi scandito da flussi in flashback e da anticipazioni coreografiche. I danzatori si rivelano a poco a poco, lo fanno attraverso la parola, attraverso il gesto, attraverso la danza.
Colonna sonora delle loro vite e dello spettacolo sono musiche di autori che spaziano tra generi molto diversi, dal tecno industrial tedesco alla musica sacra di Pergolesi o quella del balletto classico di Adam e Tchaikovsky fino al pop di Irene Cara.
Agli spettatori arriva un po’ confuso, solo abbozzato, un concatenarsi di scene che tornano a più riprese. Tutto è giocato sulla ripetizione (come faceva la Bausch), con le dovute variazione di ritmo e di intenzione. I cinque danzatori, Justine Lebas, Antonio Montanile, Damiaan Veens, Anna Wehsarg, Ophelia Young provengono da diverse nazionalità ed esperienze professionali. Anche i loro fisici sono totalmente diversi uno dall’altro. Del resto non si tratta di un corpo di ballo classico, sono bravi, ma questo non basta per dare al pubblico quell’emozione sperata.
E quando dopo un’ora e trenta minuti si giunge all’epilogo, tornano le immagini e le situazioni studiate nella prima parte, tutto come in uno spettacolo di Pina, ma ahimè senza la sua aura.