Secondo i firmatari di una petizione il Padiglione della Namibia non sarebbe rappresentativo della Nazione. Il curatore Marco Furio Ferrario replica alle accuse sostenendo le proprie ragioni.
Per la prima volta nella storia la Namibia avrà il suo padiglione alla Biennale. Un momento importante, fondamentale per lo sviluppo del movimento artistico nel Paese africano. Sarebbe tutto fantastico, ma invece che conquistare il pubblico lagunare, per ora, le scelte apportate dal team curatoriale stanno facendo discutere in patria. E non solo.
Una petizione indetta dalla comunità artistica namibiana ha posto l’attenzione su alcuni aspetti – l’immagine stereotipata che l’opera dà della Namibia, il coinvolgimento dell’artista in business turistici e poco legati al mondo dell’arte, gli interessi personali che avrebbero guidato le scelte del curatore e del governo – e ha portato gli sponsor principali Monica Cembrola e Abercrombie and Kent a ritirarsi dal progetto.
Il Padiglione della Namibia – dal titolo A Bridge to the Desert – debutta alla Biennale di Venezia presentando un progetto di Land art: The Lone Stone Men of the Desert. Una riflessione sulla condizione umana raccontata da una serie di sculture apparse alcuni anni fa
nella regione del Kunene del deserto del Namib, il più antico del Mondo.
É lì che il curatore Marco Furio Ferrario si è imbattuto in loro, proponendoli al Ministero della Cultura della Namibia come opere rappresentative della Nazione. A realizzarle l’artista noto con lo pseudonimo RENN, che vuole rimanere anonimo. Di lui sappiamo solo che ha 64 anni, che è nato a Johannesburg e che la Biennale rappresenta il suo debutto in campo artistico.
É questo il primo elemento a insospettire pubblico e sponsor, che però comprendono l’esigenza dell’artista, ben esemplificata anche da Ferrario: “l’Artista ha posto come condizione che le opere fossero davvero al centro e che la sua persona non apparisse. RENN ritiene che le sue opere appartengano alla Namibia e a tutte le persone che vorranno visitarle, pertanto rifiuta qualsiasi connotazione personale compresa quella di genere, tranne la sua nazionalità namibiana“.
Le sculture, in pietre del deserto e tondini di ferro, hanno fattezze umane stilizzate. Rappresentano le diverse culture: distanti, ma in cerca di un punto d’incontro. Il deserto non è solo contesto di un’opera site-specific, ma parte integrante della stessa. É la distanza culturale tra le popolazioni del mondo, ma anche simbolo della situazione critica raggiunta nel rapporto tra l’umanità nel suo complesso e la Terra come nicchia biologica.
Una visione, per alcuni, troppo stereotipata e ingabbiata nella dicotomia natura-civiltà. Una retorica che vede i namibiani perennemente rappresentati come “ingenui e subumani”. L’occasione, insomma, di perpetuare un incontro incivili-civilizzati. Anche a questo Ferrario replica.
“Per quanto riguarda le polemiche circa la rappresentatività, è evidente che poggiano su basi piuttosto deboli: qualsiasi espressione richiede una scelta e nessuna scelta potrà mai essere rappresentativa di un intero Paese, né quello è mai stato l’obiettivo. Abbiamo selezionato delle opere che hanno una relazione addirittura imprescindibile con il territorio namibiano, perché il paesaggio è parte integrante delle opere stesse. Si tratta di una nuova forma, una evoluzione di Land Art, dove la manipolazione del paesaggio avviene attraverso la manipolazione percettiva introdotta dalle sculture”.
Quanto all’ultima questione, la più spinosa, quella legata ai presunti conflitti d’interesse, il curatore non si sottrae al confronto.
“Le accuse di discriminazione o di interesse, poi, sono smentite dal fatto che la selezione delle opere è avvenuta prima ancora di sapere da chi fossero fatte, perché non sono mai state firmate. Solo dopo la proposta di portarle alla Biennale sono state firmate con lo pseudonimo RENN”.
Considerazioni che evidentemente non hanno convinto i due principali sponsor, che come detto hanno scelto di tirarsi indietro. Ne rimangono comunque 20, non pochi, a garantire il loro sostegno al progetto che sarà regolarmente in esposizione.
“Chiunque verrà a vederle potrà farsi la propria idea sui reali contenuti al di là di polemiche sterili che tra l’altro non parlano mai dell’unica cosa che dovrebbe essere al centro di una mostra: l’opera d’arte” ha concluso Ferrario.