Il padiglione centrale e i padiglioni nazionali della Biennale Arte utilizzano principalmente strumenti e metodologie della critica di genere, dei black studies, dell’ecologismo radicale
Vi è un interrogativo intrinseco alla Biennale Arte 2022 che rinnova il rituale del presentismo del mondo dell’arte dopo due anni di pandemia: può l’arte avere un impatto immediato sulla realtà sociale e politica e dunque trasformare la società? Per rispondere, il padiglione centrale curato da Cecilia Alemanni e i padiglioni nazionali utilizzano principalmente gli strumenti e le metodologie della critica di genere, dei black studies, dell’ecologismo radicale, delle riflessioni nate nel Sud globale e della magia intesa alla maniera di Silvia Federici – marxista e femminista.
Il Latte dei Sogni è un progetto curatoriale coraggioso e rizomatico, articolato in sezioni di materiali d’archivio dedicate alla figura della strega e alla metamorfosi, ad artiste che impiegarono forme espanse di produzione testuale. A tecnologie dell’incanto, alle iconologie del recipiente e ai suoi legami metaforici con la natura e il corpo e alla figura speculativa del cyborg. Per chi ama gli archivi, è un piacere attraversare queste capsule del tempo che esemplificano il grande lavoro di ricerca effettuato. Sature e a tratti con difficoltà di fruizione, allestimento e leggibilità delle opere sono invece le sale che accolgono le artiste viventi e i loro lavori. La generosità dello sforzo curatoriale – visibile nei numeri dell’esposizione – rischia di stemperare e annichilire la ricerca di molte artiste che scompaiono o retrocedono in una penombra, nella quale risulta difficile cogliere messaggi provenienti da molteplici luoghi disseminati nel pianeta.
Occasione mancata
Oltrepassando però le discussioni attorno agli equilibri tra curatrice e artiste e alle questioni estetiche e cosmetiche dell’esposizione, la Biennale d’arte 2022 appare l’occasione mancata di uno sforzo intellettuale e curatoriale abile a gestire la complessità della Critical Theory ma incapace di ripensare se stesso, i formati dell’esposizione e inevitabilmente i rapporti di potere. Diviene così un santuario della critica enunciativa ma non trasformativa, della neutralizzazione delle radicalità e dell’agire neoliberale dell’arte contemporanea.
Le retoriche politicamente impegnate rischiano infatti di divenire vittime e complici dei flussi di capitale privato alle quali sono sottomesse, della compravendita in corso da parte dell’Occidente delle subalternità del Sud globale e della valorizzazione capitalista delle minoranze. La situazione pandemica/endemica e le attuali guerre in corso (non solo il conflitto russo-ucraino) ci ricordano che musei, luoghi della cultura e gallerie possono fuoriuscire istantaneamente e pericolosamente dal dibattito pubblico se non sono in grado di perpetuare la loro funzione sociale. Lo stato attuale delle cose ci restituisce anche una società con disuguaglianze sociali in costante aumento e sforzi per un divenire ecologico del mondo in arresto. Il mondo dell’arte deve dunque smettere di guardare solamente a se stesso. E deve riscoprirsi capace di ampliare i soggetti attivi coinvolti e di ripensare i suoi funzionamenti.
Ripensare il format
Questo non significa solamente utilizzare la retorica dell’aumento dei numeri dei visitatori, piuttosto ripartire dalle riflessioni teoriche di questa edizione per ripensare il format di una Biennale più autonoma, cittadina, deterritorializzata e che lavori sulle condizioni problematiche del lavoro artistico, collaborando effettivamente e affettivamente con l’intelletto sociale creativo. Non può più esistere una Biennale che non ridefinisca anche le categorie di pubblico, bene comune, sostenibilità, economia e politica. Questa non è solo una riflessione, bensì un desiderio dell’immanenza del futuro.